La morte, nella visione dello yoga e dell’induismo, è molto più di una fine definitiva: rappresenta una trasformazione, un passaggio naturale all’interno del ciclo cosmico di Samsara, la continua alternanza di nascita, morte e rinascita. A differenza di molte altre culture, dove la morte è spesso percepita come una chiusura dolorosa, la filosofia indiana la interpreta come un’opportunità per la crescita spirituale e la realizzazione del vero sé.
Alla base di questa visione si trova il concetto di Purushartha, che identifica i quattro obiettivi della vita umana: il Dharma, ossia il dovere morale e l’armonia con l’universo; l’Artha, la ricerca della prosperità materiale necessaria per vivere serenamente; il Kama, la soddisfazione dei piaceri e dei desideri legittimi; e infine il Moksha, la liberazione spirituale, l’obiettivo più elevato. È proprio quest’ultimo, il Moksha, che offre la chiave per comprendere il significato della morte: la liberazione definitiva dal ciclo di nascita e morte e l’unione con il divino, la verità eterna che trascende ogni dualità.
Questa prospettiva viene spiegata con straordinaria profondità nella Katha Upanishad, uno dei testi più celebri della filosofia vedica. Qui, il giovane Nachiketa affronta il dio della morte, Yama, ponendogli domande sul destino dell’anima e sul mistero della vita dopo la morte. Yama rivela che l’Atman, il Sé profondo di ogni individuo, è eterno, immutabile e al di là della nascita e della morte. Il corpo, dice Yama, è come un vestito che l’anima indossa e abbandona nel tempo; l’Atman, invece, continua il suo viaggio. Questo insegnamento rivoluzionario ci invita a comprendere che la morte non distrugge ciò che siamo veramente.
Un’altra straordinaria spiegazione della morte si trova nel secondo capitolo della Bhagavad Gita, dove Krishna insegna ad Arjuna la vera natura dell’anima. Di fronte alla disperazione di Arjuna, che si rifiuta di combattere per paura di causare la morte dei suoi cari, Krishna lo esorta a guardare oltre la dimensione fisica dell’esistenza. L’anima, spiega, è immortale e inalterabile: essa non nasce, non muore, non è soggetta alla distruzione. Il corpo è transitorio, come una veste che si consuma e viene sostituita, mentre l’anima prosegue il suo percorso in nuovi corpi secondo le azioni compiute, ovvero il karma. Krishna insegna ad Arjuna che compiere il proprio Dharma con distacco e consapevolezza è la via per trascendere la paura della morte e vivere serenamente.
Nello yoga, la morte è spesso paragonata allo stato di Samadhi, la meditazione profonda che porta all’unione con il divino. Attraverso pratiche come la meditazione, il controllo del respiro e la disciplina mentale, lo yoga insegna a distaccarsi dall’identificazione con il corpo fisico e con la mente, permettendo all’individuo di sperimentare la propria vera natura, l’Atman, che è oltre il tempo e lo spazio. Prepararsi alla morte, in questo senso, non significa aspettarla passivamente, ma vivere pienamente e consapevolmente ogni momento, riconoscendo l’impermanenza del corpo e della realtà materiale.
Questa visione olistica della vita e della morte invita a un equilibrio profondo. La filosofia dei Purushartha ci insegna che possiamo vivere serenamente nel mondo, soddisfacendo i nostri bisogni materiali ed emotivi senza perdere di vista lo scopo più alto: il raggiungimento del Moksha. Ogni esperienza della vita, inclusa la morte, diventa un’opportunità per evolvere spiritualmente e avvicinarsi alla verità ultima.
Nella cultura vedica, la morte è una maestra. Essa ci ricorda che il mondo materiale è effimero e che il vero sé è eterno. Accettare la morte significa abbandonare la paura e l’attaccamento, vivendo con consapevolezza e armonia. La morte non è una fine, ma un passaggio verso un’esistenza superiore, un’opportunità per ritornare alla nostra natura eterna. È solo attraverso questa comprensione che possiamo guardare oltre l’illusione della separazione e scoprire la pace suprema.
Ho sempre trovato il concetto del samsara molto affascinate e interessante, grazie per la bella spiegazione