Yogaś citta vṛtti nirodhaḥ
Nello Yoga Sutra, sezione prima, verso secondo, Maharishi Patanjali ci dona una definizione di Yoga che mostra chiaramente come questo cammino verso la realizzazione dello stato di Yoga, sia strettamente legato alla condizione della nostra mente. Questo verso, tradotto letteralmente, ci illumina su come lo stato di Yoga si realizzi con la cessazioni delle modificazioni mentali. In un altro testo molto importante nella letteratura spirituale indiana, la Bhagavad Gita (capitolo 2, verso 50), possiamo leggere:
buddhi-yukto jahātīha ubhe sukṛita-duṣhkṛite
tasmād yogāya yujyasva yogaḥ karmasu kauśhalam
Ovvero, colui che pratica l’equanimità sorta dalla saggezza, si libera dal bene e dal male anche in questa vita, dunque agisci perchè lo Yoga è azione pienamente consapevole nella giusta direzione. Ora sappiamo anche come dobbiamo agire per realizzare lo stato di Yoga, ovvero, dobbiamo agire pienamente consapevoli nella direzione volta a quel cammino capace di trasformare la mente da una condizione “Ksipta”, ovvero distratta, dominata da Rajas Guna, irrequieta, volubile, instabile, incapace di concentrarsi o decidere, verso una mente “niruddha”, ovvero una condizione che deriva dalla condizione “nirodha” (termine che significa cessazione), e che intende una mente in uno stato di pura calma completamente assorbito nel momento presente. Qui, la mente è libera da tutti gli attaccamenti e desideri e si inizia a sperimentare una profonda pace e beatitudine caratterizzata dalla dominanza di Sattva Guna. Per poter trasformare la mente verso la condizione niruddha,
lo Yoga diventa l’indispensabile “nirodha” di “citta” (la mente), lo strumento capace di trasformare la mente e consentire la realizzazione della nostra vera essenza, il nostro sé, oltre i confini della nostre mente.
Tadādraṣṭusvarūpe ̍vasthānam
E’ lo stesso Patanjali che nel verso successivo, ovvero il terzo della prima sezione ci dice che “in quel momento, dopo la cessazione delle vrtti, l’osservatore si stabilisce nella sua vera natura”, spiegandoci, aderendo alla visione di un’altra scuola filosofica ortodossa indiana, il Sāṁkhya, come una volta annichilite tutte le modificazioni mentali, attraverso la pratica degli otto aspetti dello Yoga, una volta aver trasceso il complesso corpo-mente appartenente all’energia materiale o Prakrti, l’osservatore, realizza di essere anche colui che è osservato. Lo stato di Yoga è realizzato. A questo punto possiamo quindi, senza ombra di dubbio, affermare che lo Yoga è andare oltre il corpo e per conseguenza oltre la mente, essendo quest’ultima la causa del nostro corpo. Lo Yoga è quindi un metodo che non unisce (almeno nella concezione Patanjaliana), ma separa il Sè da tutto quello che non è il Sè consentendo quindi al praticante di andare oltre le barriere del corpo e il limiti della mente per realizzare se stesso e godere di estasi, come dice Krishna nella Bhagavad Gita, anche in questa vita. Per realizzare questa condizione abbiamo a nostra disposizione due strumenti potenti.
“abhyasa vairagya abhyam tan nirodhah”
Abhyāsa e Vairāgya sono due pilastri nella pratica dello Yoga. Abhyāsa è la costanza, la dedizione, lo sforzo sostenuto per lungo periodo. Vairāgya è l’abbandonare ogni forma di resistenza, è il non bramare risultati ma agire, nella giusta direzione perchè questo è il nostro dovere, qualunque sia il risultato finale. A questo punto, proprio come Krishna incitava ad Arjuna sul campo di battaglia di Kurukshetra, “alzati e combatti” perchè la meraviglia che attende ognuno di noi, si trova esattamente al di là di quelle modificazione mentali nella quale ci immedesimiamo e che ci impediscono di
realizzare che siamo altro e ben oltre quello che pensiamo di essere. I mezzi si conoscono, la strada si conosce. Riflettiamoci su.
Testo e immagine di Michele Tumminello