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Immagine di Saba Najafi

Quando hai superato il mezzo secolo di vita, forse, sorge spontaneo porsi certe domande. In questo periodo, mi interrogo spesso sulla piega che avrebbe preso la mia vita se in passato avessi fatto altre scelte.

Qualcuno ricorderà il film “Sliding doors”, in cui il destino della protagonista – una bellissima Gwyneth Paltrow – veniva determinato dall’evento contingente della chiusura delle porte della metropolitana. Il racconto scorre su due binari paralleli: da una parte, si vede cosa sarebbe successo se quelle porte si fossero chiuse prima che ella fosse riuscita a salire sul vagone e, dall’altra parte, che piega avrebbe preso la sua vita se, invece, fosse salita a bordo. Due esistenze completamente diverse.

Il mio “se…” non riguarda un evento contingente: un treno perso, un ritardo non dipendente dalla mia volontà, un incidente di percorso. Il mio “se…” riguarda le scelte che hanno influito sulle grandi decisioni della mia vita.

Interrogarsi sul perché abbiamo preso certe decisioni non è una questione sempre facile. Occorre essere capaci di guardare onestamente in se stessi e voler capire quanto siamo stati condizionati e quanto eravamo liberi. E, soprattutto, essere disposti ad accettare che, in un certo senso, “liberi” non siamo mai. Sulle nostre scelte di vita, infatti, esercita un’enorme – direi preponderante – influenza il modo in cui siamo “strutturati”. E il modo in cui siamo strutturati dipende dal nostro vissuto, dall’educazione che abbiamo ricevuto e da come l’abbiamo introiettata e poi la cultura, la società in cui siamo inseriti, l’epoca storica in cui viviamo … Insomma, variabili che sembrerebbero lasciare ben poco spazio alla libera iniziativa individuale.

Di fatto è così. Il nostro vissuto, cioè le esperienze che abbiamo fatto sin da piccoli e piccolissimi (probabilmente ancora in grembo), ha forgiato il modo in cui guardiamo al mondo e questa visione delle cose, in definitiva, determina il nostro modo di comportarci. Allora, la strada verso la libertà passa dalla ricerca della verità.

La pratica di satya

Uno dei primi esercizi che ho compiuto quando ho intrapreso la via del jñana yoga (lo yoga della conoscenza) riguardava la pratica della verità, appunto. In sanscrito, si dice satya ed è uno dei cinque yama prescritti dall’ashtangayoga, negli Yogasūtra di Patañjali. L’esercizio consisteva, in un primo momento, nel prendere atto che ogni volta che mi trovavo in una situazione scomoda, inventavo una scusa o dicevo una bugia, pur di non affrontarla apertamente. In un secondo momento, ho dovuto invertire la modalità “menzogna” sforzandomi di dire la verità e… affrontare le conseguenze.

È stato un lavoro impegnativo, che mi ha rivelato come ricorressi a quella modalità per paura di gestire la situazione che mi si presentava. La paura era cioè l’emozione collegata al mio atteggiamento da “bugiarda seriale”. Man mano che modificavo quell’attitudine, mi sono accorta che la paura si affievoliva, mi sono sentita più forte e coraggiosa. Questo l’effetto della pratica di satya: alla paura si sostituisce il coraggio, alla debolezza, la forza.

Per raggiungere questo risultato, bisogna prestare attenzione ai tranelli della mente. Essa, infatti, tenta sempre di boicottare i nostri sforzi di procedere sulla strada della verità / libertà: ci racconteremo che diciamo quella bugia per non “far preoccupare” l’interlocutore, giustificheremo la nostra falsità con la scusa che, in fondo, è insignificante. Ma, sotto sotto, una parte di noi sa che è solo per renderci la vita più facile, per la paura di affrontare le conseguenze che temiamo possano derivare dalla nostra sincerità. In questo modo, tuttavia, inganniamo prima di tutto noi stessi, perché tradiamo il nostro sentire più autentico.

Nell’hatha yoga c’è una posizione che consiste nell’aprirsi nella parte anteriore del busto, mantenendosi ben saldi sulle gambe ma mostrando il fianco. Si tratta di Viparita Virabhadrasana, il guerriero inverso. Prestare il fianco può farci sentire indifesi. Invece, «nel presentarci per quello che siamo, senza falsi costrutti, e nel mostrare le nostre debolezze, lungi dall’apparire fragili, ci sentiremo sostenuti da una forza particolare. Nell’autenticità risiede una bellezza che possiamo far emergere, senza più timore!»1

Quando mettiamo in atto una strategia che consiste in comportamenti non virtuosi – come il nascondersi dietro una paratia di bugie – lo facciamo per ovviare a emozioni che facciamo fatica a sostenere; nel caso del non dire la verità, la paura; nel caso della rabbia, potrebbe esserci la tristezza; nel caso dell’invidia, una bassa autostima; etc.

Ebbene, arriva un momento in cui, come si dice, i nodi vengono al pettine. Le conseguenze delle nostre strategie di sopravvivenza si manifestano alzando la posta in gioco. Quello che ci succede, che a volte sembra prenderci alla sprovvista e renderci la vita difficile, è determinato in realtà dalle scelte che abbiamo fatto, dai nostri comportamenti, messi in atto magari in modo inconsapevole. Prenderne atto è il primo, fondamentale, passo dettato dalla maggiore consapevolezza che si sta sviluppando in noi, se vogliamo vederlo.

Nel mio esercizio sul dire la verità, mi ero fermata alle bugie che escogitavo per ovviare a intralci di percorso che consideravo indesiderati o fastidiosi. Non avevo fatto i conti con bugie più consistenti, quelle che raccontavo a me stessa e che hanno determinato comportamenti, scelte e, di conseguenza, la piega che aveva preso la mia vita in base al treno sul quale avevo deciso di salire rispetto ad altri, altrettanto disponibili.

Così, man mano che perfezionavo la pratica di satya nella relazione con gli altri, si è manifestata la circostanza che mi ha costretto a prendere atto di quelle bugie. É stato oltremodo faticoso, ma enormemente istruttivo. Aver agito su falsi presupposti mi aveva portata lontana dalla mia natura più autentica, facendomi vivere in modalità sottopotenziata. Ho compreso cioè che mi ero messa al riparo da certi timori – le paure che alimentavano le bugie – ma avevo rinunciato a vivere pienamente. Avevo letteralmente tradito me stessa!

Capito questo con gli strumenti della presenza consapevole che lo yoga insegna, si può evitare di cadere in falsi rimpianti. Si può cioè arrivare ad accettare che si sono prese determinate strade rispetto ad altre, magari più consone alla propria natura, perché non si era ancora in grado di vederle. Si comprende allora per quale motivo si è scesi a compromessi: tradire se stessi è stato il modo escogitato per mettersi in salvo da un timore più grosso di quello che avrebbe comportato esprimere veramente se stessi.

Smettere di scappare e invertire la rotta

Quando la vita mi ha messo di fronte alle conseguenze delle mie bugie ho scelto di non scappare più. C’è sempre tempo per invertire la rotta, anche se sfoderare le risorse per affrontare le proprie paure diventa un’impresa molto impegnativa. Patañjali la chiama pratipaksa, che significa “andare contro corrente”. Quindi, un movimento non propriamente facile… un andamento che comporta fatica, come quella che fanno i salmoni che risalgono il torrente per dare alla luce la prole. É vero, arrivati in cima muoiono, ma danno inizio a nuove vite. Così noi, al momento della svolta, moriamo un po’ a noi stessi (a quello che eravamo diventati) per cominciare una vita nuova (per tornare a essere maggiormente noi stessi).

Allora, tutta la fatica, la tristezza che la accompagna, la paura di non farcela e di crollare miseramente non sono più le emozioni che in precedenza avevano provocato la messa in atto di comportamenti non virtuosi; sono emozioni che, se abitate, si esprimono a un’ottava superiore e consentono, a loro volta, di mettere in atto comportamenti ora virtuosi, che diventano modi di essere più veri, più vicini alla natura autentica che ciascuno serba in sé. Per manifestare tale indole, oltre a una certa dose di coraggio, occorre compassione nei confronti di se stessi. Occorre, in altre parole, perdonarsi di non essere stati capaci di mettere in atto prima quell’atteggiamento. Occorre non giudicare la propria debolezza passata.

La compassione per gli altri, così necessaria per creare una società più giusta ed evoluta, potrà esprimersi solo se saremo capaci di provarla verso noi stessi. Un atto coraggioso di verità, un passo verso la libertà. “La verità vi farà liberi”2 diceva Gesù. Che praticasse anche lui jñana yoga ?!

Mara Valenti

BIBLIOGRAFIA

1 Tratto dal Cap.16 “Satya. La verità che si manifesta”, Yoga Metaforico. Forme corporee e immagini mentali tra hatha e jñāna yoga, Anima Edizioni (2024), p.172.

2 Vangelo di Giovanni, 8.32 su cui v. Igor Sibaldi, “Il Codice segreto del vangelo. Il libro del giovane Giovanni”, Sperling & Kupfer (2013), p. 371-374.

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