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Parto da una domanda che mi è stata rivolta recentemente e che ritengo possa essere un buono spunto di indagine, approfondimento nonché “smascheramento”. La domanda è la seguente: “Come posso valutare i risultati della pratica yogica, gli apporti e i benefici nella mia vita?”. Può sembrare banale come interrogativo ma, prima di tutto, mi è stato posto da un neofita, assolutamente digiuno di yoga, incuriosito e propenso a intraprendere un primo passo verso questa disciplina. L’estensione della domanda, infatti, è stata: “Cosa dovrebbe succedermi dopo che ho seguito un anno di percorso yoga con te?”.

In secondo luogo, tanto banale quell’interrogativo non è affatto. Per nessuno, incluso per chi lo yoga lo insegna.
Si potrebbe, infatti, cadere nella tentazione di iniziare a stilare subito il lungo elenco di benefici dati dalla pratica assidua dello yoga, a tutti i livelli (fisico, emotivo, mentale e spirituale): corpo più armonioso, elasticità e tonicità muscolare, rasserenamento, resilienza alle situazioni della vita, senso di espansione, silenzio, quiete mentale e la famosa Unione che lo yoga custodisce e insieme svela nella radice del suo stesso etimo. Ma, a ben vedere, la lista (che tra l’altro ho abbreviato per comodità) potrebbe ridursi di gran lunga, e – aggiungo – fortunatamente! E la risposta essere molto più netta:

Succede che il tuo senso dell’io si depotenzia al punto di scomparire.
Succede che l’illusione di essere un io separato dal resto del mondo e dall’universo svanisce.
Succede che la totalità dell’esistenza risuona in un’unica parola-seme che insieme dona e toglie senso all’intera Sadhana (ricerca spirituale): la Coscienza della pura Presenza.

Succede sì, accade o forse no.
Non è detto che accada con lo yoga, dal momento che l’Essere che realmente siamo è la nostra vera natura (Aham Svarupa) ed è sempre con noi, sia che ci mettiamo in posizione del loto sia che innaffiamo le piante o buttiamo la pattumiera.
Ma, per chi sente una chiamata allo yoga (come il danzatore per la danza, il poeta per la poesia, il marinaio per il mare…) questo – e non altro – è il radicale senso trasmesso nella sua originaria tradizione. Dunque, chakra o non chakra, mantra o non mantra, se il praticante rimane un praticante molto identificato con Colui-che-pratica e magari fa progressi evidenti nel mantenimento di un asana o vive esperienze visionarie di espansione della coscienza durante la meditazione, e via dicendo, dovremmo umilmente tornare alla domanda fondamentale: Io chi? Chi sta provando queste esperienze?
Si può rimanere molto appagati da una pratica yoga, ci si può sentire migliorati, più energici, armoniosi e via dicendo, ma si può rimanere nello stesso tempo in compagnia del proprio io personale, delle sue reattività e obiettivi ingannevoli, incluso quello del risveglio spirituale.

YOGA E BHOGA

Yoga quale Unione intesa come riassorbimento del senso dell’io personale (ahamkara) diverge dallo yoga vissuto come pratica (esteriore/estetica o spirituale) volta a ottenimenti con benefici fisici-emotivi-mentali-spirituali in cui ancora esiste un Io molto tonico che si appropria dell’esperienza yogica e ne fa il suo campo di battaglia, seppur a fin di bene. Un ego spirituale perpetua l’illusione del senso dell’io personale forse ancora più pericolosamente di tutti gli altri ego che compongono la trama delle maschere con cui ci si identifica rimanendo avvinti nella trappola della dualità, della non conoscenza (avidya), da cui non si salva neppure la spiritualità. In tal senso, nei testi delle Upanishad dove viene declamata senza possibilità di girarci troppo intorno la visione non duale Advaita, si ritrovano due termini distinti: bhoga e yoga.
Cito alcuni versi tratti dall’Astavakra Samhita (antico testo sanscrito risalente al V o IV sec. a.C. che espone i fondamenti del non dualismo induista, o Advaita Vedanta), Sloka 2, Capitolo 18 intitolato La pace:

“Si ottengono grandi godimenti dai commerci con il mondo, ma sicuramente non si può essere felici senza rinunciarci”.

Il godimento (bhoga) delle cose mondane (incluso il compiacimento per i presunti risultati della pratica spirituale) è il contrario dell’unione (yoga) con esse. La rinuncia si riferisce quindi all’io individuale (ahamkara) che provoca attaccamento (il commercio) e non alle cose stesse, che vanno accettate “così come vengono”.
In ultima analisi, cadiamo nella trappola dell’illusione anche quando sentiamo il “dovere” di liberarci, quando riteniamo reale la dualità tra il mondo e il nostro io individuale, che ci fa sentire gli agenti dell’azione (karta) … anche durante la pratica yoga. Chiediamoci, dunque: chi fa yoga? La personalità che si sente separata dalla sua Origine e, dunque, cerca un appagamento nella pratica (il “facitore di io” dentro di sé – antarahamkara – l’individuo racchiuso nel corpo-mente) oppure il Sé impersonale intimamente assorto nella gioia di semplicemente esserci? Sat Cit Ananda…

YOGA DUALE E NON DUALE

Alcune altre domande per dimorare ancora un po’ nell’introspezione da cui può originare il presentimento dell’Unica Risposta.

Rivolto a chi inizia un percorso di yoga: perché vuoi fare yoga? A “cosa ti serve”?

Rivolto a chi insegna: chi vedi dall’altra parte? Allievi o maestri?

Recita un vecchio adagio: l’unica differenza fra un risvegliato e un non risvegliato è che per il secondo c’è ancora una differenza…

Una giusta attitudine può risultare molto funzionale nell’approccio alla pratica affinché si delinei sempre meno come “pratica” e sempre più come “presenza vitale” in cui il non fare nella ricettività svuota il senso dell’io personale volitivo per il quale yoga è bhoga. Per approfondire, ne ho scritto più largamente in quest’altro articolo su Yoga Magazine.

Se andiamo dal medico in preda a un malessere, cosa preferiremmo sentirci dire?

Una lista di rimedi da prendere per curarci (magari anche naturali, 100% bio, cruelty free etc.) oppure… che non siamo malati e il malessere è stato un inganno momentaneo della coscienza?

La lista delle “cose da fare” nella Sadhana yoga (mantra, asana, pranayama etc.) è secondaria rispetto al Chi le fa o crede di farle. D’altronde, tornare alle radici dello Yoga vorrebbe dire approfondire prima di tutto Yama e Niyama (le prime due delle otto parti dell’Asthanga Yoga di Patanjali), conditio sine qua non per i successivi passi…
E che altro sono i 10 Yama e Niyama se non un invito a congedarci dalla malattia dall’egocentrismo?

Cecilia Martino

Consigli di lettura

  • Mauro Bergonzi, Il sorriso segreto dell’essere – Oltre l’illusione dell’io e della ricerca spirituale
  • Gioia Lussana, Lo Yoga della Bellezza
  • Jean Klein, La naturalezza dell’essere
  • Eric Baret, Lo Yoga tantrico del Kasmir
  • Dal Blog: Yoga con Cecilia – Rigenerazione Gratitudine Respiro

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