La meditazione è un mezzo potentissimo di approfondimento della conoscenza. La meditazione (dal latino meditatio, riflessione) è, in generale, una pratica che si utilizza per raggiungere una maggiore padronanza delle attività della mente, in modo che questa divenga capace di concentrarsi su un solo pensiero, su un concetto elevato, o un preciso elemento della realtà, cessando il suo usuale chiacchierio di sottofondo e divenendo assolutamente acquietata, pacifica. In questo articolo ricorderemo alcuni dei più importanti studi fatti negli ultimi anni, per confermare che quello che dicevano i saggi millenni e millenni di anni fa è realtà.
Ad esempio, alcuni scienziati dell’Università della California di Los Angeles (UCLA) hanno studiato la relazione tra la meditazione e la struttura fisica del cervello. Già da tempo si sa che questa attività ha effetti positivi sulla salute psicologica delle persone che la praticano perché abbassa i livelli di ansia, favorisce la concentrazione e offre benefici simili a quelli del sonno. Tuttavia, ora è stato anche scoperto che le persone che meditano con regolarità da qualche anno hanno sviluppato uno strato più spesso di cellule sulla corteccia cerebrale. I neuroscienziati hanno osservato che la corteccia cerebrale ha sviluppato più connessioni tra i neuroni rispetto a quelle che ci sono nel cervello di persone che non hanno mai meditato in tutta la loro vita, e che più a lungo si pratica tale disciplina, più sarà alta la quantità di sinapsi (relazioni tra le cellule cerebrali) che si formerà. Alla Brown University di Providence (Usa), Catherine Kerr sfrutta la meditazione per il suo effetto analgesico: sostiene che funziona come una specie di manopola che regola la percezione delle sensazioni sgradevoli. Nel 2010, quando era al Mit di Harvard, ha dimostrato che, se si focalizza l’attenzione sulle sensazioni della mano sinistra, la “mappa” cerebrale corrispondente a quella mano registra una significativa caduta dell’ampiezza delle onde che filtrano le sensazioni lasciando passare solo quelle che superano una certa soglia.
Se invece l’attenzione si focalizza su un’altra parte del corpo, le onde tornano normali. L’anno successivo, usando la magneto-encefalografia, una tecnica di imaging cerebrale, ha dimostrato che i ritmi di queste onde nel cervello sono correlati con l’attenzione sensoriale e che l’abilità di regolare queste onde nella corteccia cerebrale è maggiore nei soggetti capaci di meditazione. In altre parole, meditare consente un maggior controllo sul sistema sensoriale e permette di scegliere su cosa focalizzare l’attenzione. Risultato? La meditazione fa andare sullo sfondo quello che non si vuole sentire, per esempio – e non è poco – i dolori cronici. Fadel Zeidan, neurobiologo della Wake Forest Baptist University (Usa), ha persino quantificato l’effetto della meditazione rispetto al potere analgesico della morfina: “Potrebbe ridurre del 40% l’intensità del dolore e del 57% la sua spiacevolezza, contro una riduzione del solo 25% ottenuta con la morfina” sostiene Zeidan.
Molte malattie cardiovascolari e neurodegenerative sono legate a uno stato di infiammazione di cui non si conosce esattamente né l’origine né la cura: se si riuscisse a ridurre lo stato infiammatorio forse le si potrebbe prevenire. È la strada percorsa quasi per caso da Steven Cole, dell’University of California Los Angeles (Ucla): voleva studiare se la meditazione fosse in grado di ridurre la sensazione di solitudine degli anziani, condizione che aumenta il rischio di malattie cardiache, Alzheimer, depressione e persino morte prematura. Così ha messo una quarantina di soggetti in meditazione mezz’ora al giorno per 8 settimane. Ma presto ha scoperto che questa “terapia” non si limitava a influire sul benessere psicologico: la meditazione riduceva anche l’attivazione dei geni correlati all’infiammazione e quindi riduceva l’infiammazione stessa. Inoltre, alcuni psicologi dell’Università di Washington affermano di avere prove attendibili che la meditazione incrementa il funzionamento dell’emisfero cerebrale destro. Gli effetti sembrano anche essere cumulativi.
I meditatori più esperti ottengono risultati migliori sia dei meditatori principianti che del gruppo di controllo.”Per quanto ne sappiamo, questo è il primo studio sperimentale che connette la meditazione con l’emisfero non dominante” – hanno detto Robert Pagano e Lynn Frumkin dell’università di Washington – “La dimostrazione di questa connessione è coerente con l’aumento delle ricerche empiriche che associano l’emisfero destro alle tecniche di espansione della consapevolezza”. “E’ importante notare,” dicono i ricercatori, “che i dati risultati dai non meditatori e dai meditatori inesperti… rientrano nei parametri normali. Sono i dati dei meditatori esperti che risultano al di sopra della media e che hanno prodotto differenze significative”. Robert Keith Wallace fu il primo scienziato americano ad intraprendere l’indagine scientifica dello stato di coscienza nella pratica della cosiddetta “Meditazione Trascendentale” o “MT”. La sua tesi di Ph.D., sostenuta nel 1970 alla scuola di Medicina dell’Università della California a Los Angeles, sugli effetti fisiologici della MT, costituisce una pietra miliare.
In seguito, alla scuola di Medicina di Harvard, assieme a Herbert Benson, cardiologo e professore aggiunto di medicina, egli proseguì le sue indagini sulla potenziale applicazione della MT al campo della salute. Fu scelta la Meditazione Trascendentale come tecnica orientale di meditazione perché era praticata da molti americani che costituivano un gruppo abbastanza eterogeneo facilmente raggiungibile e che avevano appreso la tecnica in maniera omogenea. Inoltre, a differenza dei meditatori indiani e giapponesi, precedentemente osservati, coloro che praticavano la Meditazione Trascendentale erano esenti da speciali osservanze religiose, dietetiche o ritualistiche che potevano in parte essere delle variabili in sede di studio.