Ogni volta che ripenso a quante cose sono cambiate in questi ultimi quindici anni di yoga mi viene da sorridere.
Sorrido perché, anche se il cambiamento, la trasformazione, il fatto di imparare ad accogliere, dovrebbe essere una naturale evoluzione della pratica e della vita stessa, per me è stato tutt’altro che semplice accettarlo.
I primi anni di pratica mi sono solo serviti ad accentuare i miei schemi mentali, la ricerca di una vita in loop dove ogni giorno ripete lo stesso ciclo con le stesse dinamiche. All’epoca non riuscivo a vedere questo come lo vedo ora, ed anzi, ogni giorno portavo all’esasperazione alcuni falsi miti che circolano soprattutto nel mondo dell’Ashtanga yoga.
Questa pratica, difatti, nasconde nella sua profonda luce delle zone di ombra – come del resto qualsiasi cosa presente su questo piano. Concetti che oggi sono all’opposto del mio approccio alla pratica e all’insegnamento erano allora il mio mantra quotidiano.
Ad esempio:
“Se si pratica Ashtanga, la corsa, la bicicletta o qualsiasi altro sport che possa minimamente intaccare la performance sul tappetino, sono banditi”;
“Siccome si pratica la mattina molto presto, la sera è meglio non mangiare”; “Più si è magr*, meno si pesa, e più gli asana diventano semplici (soprattutto per le donne);
“Cascasse il mondo, sul tappetino ci salgo perché DEVO praticare sei giorni a settimana. Non è importante come mi senta dentro o quello che mi succeda attorno. L’importante è andare avanti come un carro armato senza badare a tutte le cose che schiaccio sotto di me durante l’avanzata. D’altronde cosa c’è di più importante nella vita dell’asana e della serie successiva?!”;
“Se si pratica si progredisce, altrimenti non si possono sciogliere i blocchi del nostro corpo”;
“Senza sforzo e fatica non si ottengono risultati sul tappetino”.
Tutto questo non faceva altro che consolidare la mia indole egoistica da figlio unico. Il problema vero, però, sono tutti gli schemi rigidi che mi ero creato che non ammettevano alcuna flessibilità.
È vero che il corpo si stava superficialmente sciogliendo, ma la mia mente era diventata una roccaforte di rigidità e soprattutto il piano emozionale era stato asfaltato da un substrato di insensibilità che ora reputo l’antitesi dello Yoga.
Se ora ripenso alle parole di David Life (co-fondatore del Jivamukti Yoga) che un giorno disse in un seminario a cui partecipai a Roma tantissimi anni fa, mi risuonano come non mai:
“Lo yoga ci deve anche insegnare a saper uscire dalla nostra comfort zone, a cambiare i nostri schemi e le nostre abitudini osservando e accogliendo il cambiamento che si crea in noi.”
Quello che la pratica stava creando in me era l’esatto opposto. Non riuscivo più ad uscire dalla bolla che mi ero creato attorno.
Molti anni dopo, quando invece capii che non bisognava trasformarsi in rocce flessibili solo esternamente, capaci di modificare quello che ci sta attorno senza mai cambiare quello che si aveva dentro, imparai a perdere la mia forma rigida e intoccabile per provare ad adattarmi al cambiamento che inevitabilmente la vita mi metteva di fronte.
Ma soprattutto imparai, e tutt’ora sto imparando, ad ascoltare tutto quello che si muoveva e cambiava fuori e dentro me.
In fin dei conti il cambiamento è quello che ci permette, anche nello yoga, di perdere la nostra vecchia stantia forma per accogliere chi stiamo diventando attraverso questo percorso.
A volte penso si rimanga troppo aggrappati a chi vorremmo essere secondo il nostro ragionamento o quello degli altri, le nostre convinzioni o la nostra fede, invece di permettere al cambiamento stesso di manifestarsi attraverso strade impossibili da prevedere o percorrere se non nel momento esatto della loro apparizione.
A volte siamo molto più bravi a convincerci di essere un bruco, adattandoci e perseverando in un atteggiamento mentale che non funziona più, solo perché è più comodo così.
Perché avere il coraggio, nella scomodità, di fare una rivoluzione che crea spazio alle ali, è primo segno della metamorfosi a farfalla.