
Sankalpa è un atto di volizione, un prodotto della facoltà raziocinante. Nella tradizione dello yoga, con questo termine in sanscrito, ci si riferisce all’espressione di un’intenzione che si vorrebbe realizzata.
Se ci pensiamo, esprimiamo di continuo intenzioni: ogni nostra azione è la conseguenza di un aver pensato – e meglio sarebbe dire “voluto” – agire. Il punto è che buona parte delle nostre intenzioni rimangono terreno sconosciuto a noi stessi. Questo significa che desideriamo di continuo senza esserne consapevoli oppure senza poterci opporre, in un certo senso, a ciò che desideriamo. Il nostro subconscio, che guida e orienta pensieri e comportamenti, è, infatti, per lo più un mondo misterioso e incontrollabile razionalmente.
Diventare consapevoli di ciò che si desidera è il primo passo per conoscersi meglio. Sviluppare l’autocoscienza consente, in primo luogo, di capire la ragione di certi accadimenti della propria vita, che risultano poco comprensibili o dovuti al caso, magari considerati frutto di sfortuna ingiustificata. In secondo luogo, assumersi la responsabilità per quanto è accaduto consente eventualmente di dirigere il timone verso mete alternative. Allora, esprimere un’intenzione diventa un atto consapevole, non condizionato.
Alla ricerca del proprio sankalpa
Non è, tuttavia, sufficiente desiderare intenzionalmente qualcosa perché questa si realizzi. Circostanze particolari devono “allinearsi” perché ciò che si desidera possa manifestarsi. Diverse possono essere le variabili che servono per portare in essere il pensiero sperato. Per esempio, se sogno di diventare astronauta, ma non ho la prestanza fisica necessaria, il mio resterà un sogno irrealizzabile. Alla buona riuscita di un desiderio, comunque, non si frappongono ostacoli di natura meramente oggettiva; spesso si tratta di cause più “sottili”. Per questo motivo, la pratica del sankalpa viene presa molto seriamente nella tradizione dello yoga.
L’atto di esprimere un’intenzione, il desiderio che si vorrebbe veder realizzato, deve procedere da un animo “depurato”: occorre essere in contatto con la propria essenza più intima. Per stabilirsi in tale modalità, è a mio parere indispensabile aver perfezionato satya. La pratica della verità (uno degli Yama indicati negli “Yogasūtra” di Patañjali) conduce a una visione non falsata del proprio modo di funzionare. Solo così si potrà sentire quello che si desidera veramente. Il desiderio autentico scaturisce dal profondo senza bisogno di intermediazioni. A volte è difficile da intercettare perché siamo sommersi da strati di condizionamenti che ci impediscono persino di concederci di sperare che si avveri. Eppure, se chiedessimo onestamente a noi stessi che cosa ci renderebbe felici, potremmo trovarlo. Magari è l’intuizione di un attimo. La mente potrebbe distoglierci in fretta da quel pensiero; come se ci dicesse che non abbiamo il diritto di ottenerlo, che non ce lo possiamo permettere o meritare, che ci sono cose più importanti di cui occuparsi. Eppure, se lo abbiamo sentito, anche solo per un attimo, sappiamo che sepolto là sotto giace un tesoro che vorremmo trovare.
Per portare progressivamente alla luce il proprio sankalpa occorre fare silenzio dentro di sé e prestare ascolto a quello che il corpo-mente (citta in sanscrito) rivela. Si procede lentamente, per tentativi, andando progressivamente a sfogliare strati di rivestimenti che ricoprono l’involucro più intimo, rimasto magari senza voce. Ripetere questo passaggio, rinnovando i momenti di silenzio e di attenzione interiore è la chiave per entrare in contatto con il proprio volere più profondo.
Come lanciare efficacemente il dardo
Una volta messa a fuoco un’aspirazione che probabilmente finora non ci siamo concessi nemmeno di sperare che potesse realizzarsi nella nostra vita, occorrono alcuni accorgimenti affinché non resti solo una fantasia nel mondo delle idee. Innanzitutto, bisogna definire l’evento atteso nella maniera più chiara possibile. Si tratta di provare a immaginare nei dettagli cosa succederebbe una volta realizzato. A questo scopo è anche indispensabile che l’intenzione venga formulata in forma affermativa e al tempo presente (come se fosse già avverata). Così, per esempio, invece di lanciare come intenzione «non lavorerò più in questo posto», ripeterò a me stess* «lavoro come guida escursionistica».
In questa fase, può essere utile porsi la seguente domanda: «come mi sentirei se il mio desiderio si fosse già realizzato? Diventa importante allora assaporare quella sensazione. Il cervello, e di conseguenza le cellule del nostro corpo, infatti, non distinguono tra un evento che sta accadendo e uno immaginato: la reazione chimica è identica. La fisiologia del corpo pertanto cambia sia nel caso in cui qualcosa stia avvenendo davanti ai nostri occhi “aperti” sia nel caso in cui stia avvenendo dietro i nostri occhi “chiusi”. Di conseguenza, il magnetismo cambia e, a livello energetico, le cose cominceranno a girare diversamente.
«Più forte la volontà, più forte il flusso di energia» è l’aforisma che contiene uno degli insegnamenti più preziosi che ci ha trasmesso Paramhansa Yogananda. La pratica del sankalpa può essere considerata un pranayama, in quanto consiste nel dirigere coscientemente l’energia – per il tramite della forza di volontà – verso l’obiettivo desiderato.
Siamo polvere di stelle
Un altro elemento fondamentale per la buona riuscita di un sankalpa consiste nel sondare l’intento che fa scaturire il desiderio stesso. Etimologicamente, il termine desiderio è composto da -de- e sidera, che in latino significa “senza le stelle”. Il desiderio deriverebbe, pertanto, da un sentimento di mancanza. Voler raggiungere le stelle: un’aspirazione che fa sognare….
Qui soggiace un aspetto cruciale del desiderio, che è importante riconoscere, e cioè che esso è il segno di un bisogno. Dobbiamo, in altre parole, ammettere a noi stessi che desideriamo ciò che ci manca, che non siamo integri. Questo, che a prima vista sembra un passaggio formale nella formulazione del sankalpa, si può rivelare invece un’operazione non semplice. Spesso infatti proiettiamo all’esterno i nostri bisogni più intimi, cercando di compensare una mancanza che niente e nessuno potrà colmare.
Se invece riuscissimo a riconoscere che siamo “marchiati” da tale senso di privazione e riuscissimo a vedere come esso abbia influenzato scelte e decisioni della nostra vita, potremmo, in un certo senso, emanciparci dalla sua forza attrattiva. Solo allora potremo esprimere un desiderio da quel punto, ora risanato, che corrisponde alla nostra natura più autentica. Il sankalpa potrà così consentirci di donare quello che forse non abbiamo mai ricevuto. Probabilmente scopriremo che le stelle non andavano cercate nell’iperspazio, ma si celano dentro di noi.
Mi pare molto pertinente, a questo proposito, un passo del Vangelo di Matteo, che sembra un koan zen: «A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha» (Mt.13,12)