Immagine di Saba Najafi – sukhasana, la posizione agevole
Rito – una serie di gesti ripetuti con atteggiamento devozionale, a scopo propiziatorio.
Senza tale intenzione, i gesti che compongono l’atto rituale perderebbero di senso. Il senso glie lo attribuisce, appunto, lo stato d’animo con cui quei gesti vengono compiuti. Al di là del senso che gli si voglia attribuire, tuttavia, è innegabile che la ripetizione conduce ad alcuni effetti degni di nota. Nel bene e nel male, la ripetizione crea e rafforza un’abitudine. Infatti, vi possono essere abitudini virtuose e altre nocive.
Il rito segue uno schema e, in questo senso, costituisce una “griglia”, con regole prefissate, che devono essere seguite affinché sia valido. Il rito allora dona una certa tranquillità a chi lo compie, garantisce una sorta di rifugio: consente di affidarsi all’inconosciuto, nel collegamento che crea col mondo sovrasensibile. Eseguire un rito permette di creare quel collegamento.
Una volta stabilito il legame, il rito può essere abbandonato. Il che non significa smettere di cercare il contatto con l’inconoscibile, ma mettersi nella disposizione appropriata per conoscerlo al di là dei gesti consueti; lasciarsi penetrare dalle sue logiche. Il rito diventa un viatico che attiva la creatività, foriera di nuove scoperte.
Lo yoga è un rito se praticato con il desiderio di conoscere meglio se stessi, a partire dal corpo fisico per continuare con quello energetico/emozionale e psichico. Una volta “toccati” aspetti più sottili del nostro essere, possiamo provare a instaurare con essi un dialogo che si servirà di modalità nuove di interazione. Sarà il corpo stesso a suggerirci quali gesti compiere, come “piegare” il corpo (usare il corpo come strumento devozionale implica un inchinarsi).
Il rito è importantissimo per disciplinare il proprio corpo-mente con la sua tendenza a di-vagare. E lo yoga, qualunque sia lo stile prescelto, costituisce uno strumento molto efficace a questo scopo. Disciplinarsi significa farsi discepoli, mettersi nella disposizione d’animo di voler imparare. Una volta stabilito il contatto con il Maestro, una volta che si è aperto quel canale, è Lui che bisogna ascoltare. Spesso crediamo di non essere in grado di capire i suoi messaggi o di interpretare correttamente quello che dice. In realtà, la parte più difficile è arrivare al punto di voler sentire quello che ha da dirci.
Mi piace suggerire, a questo proposito, una posizione che consente di creare un contatto con la parte più misteriosa di noi, quella a cui tende ogni rito. Si tratta di una posizione le cui radici affondano nelle antropotecniche più antiche. È una posizione che richiede di andare contro le proprie tendenze abituali, quelle che ci siamo costruiti addosso per sopravvivere in questo mondo. Si chiama antipatikāsana. Ognuno ha la sua.
Lo yoga, se praticato correttamente, non è proprio piacevole. Il corpo viene messo sotto sforzo; la mente costretta a restare focalizzata e a non distrarsi. L’agognato rilassamento è il momento di arrivo di un percorso impegnativo. Allora, lo yoga ti conduce al punto in cui puoi… farne a meno. Lo yoga è uno strumento che serve a liberarti dello strumento. Un rito che consente di andare oltre al rito, nello spazio di libertà e autenticità che già ci caratterizza, ma che, nella modalità ordinaria, non riusciamo a vedere in noi.