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Nirvāa (निर्वाण): “cessazione dell’esistenza”, “spento”, “estinto”, “morto”.

Che cosa è la mente?

Secondo l’Enciclopedia Treccani1, per mente si intende:

Il complesso delle facoltà umane che più specificamente si riferiscono al pensiero, e in particolare quelle intellettive, percettive, mnemoniche, intuitive e volitive.

“Andare oltre la mente” potrebbe significare, quindi, avere accesso ad una conoscenza che esula dalle ordinarie facoltà intellettive e percettive, una conoscenza “intuitiva”, che viene detta, nello Yoga Pratibhā (प्रतिभा) – letteralmente “luce, “splendore”, “apparenza” – o Tāraka (तारक), che letteralmente significa “timoniere”, “pilota” ad indicare un qualcosa che ha che vedere con le stelle (“Tārā” o “Tārāti” intesa come “colei che conduce all’altra sponda).

Pratibhā e Tāraka sono parole che, come avviene sovente nel sanscrito, assumono diversi significati a seconda delle diverse scuole e dei diversi lignaggi2, ma in genere vengono tradotte, appunto, con “conoscenza intuitiva” o con “prescienza”

Per Patañjali [in Y.S. 3.33] Pratibhā è la conoscenza intuitiva che conduce all’onniscienza:

prātibhādvā sarvam ||3.33||

Oppure  (vā) attraverso prātibha [si può conoscere] ogni cosa (sarvam)3.

Una conoscenza che, secondo il versetto 3.36, si accompagna alla realizzazione dei cosiddetti “super-sensi”, definiti da alcuni “terzo occhio”, “terzo orecchio” ecc.:

tata prātibhaśrāvaavedanādarśāsvādavārtā jāyante ||3.36||

Da ciò (tatas) [ovvero dal fare sayama sull’errata identificazione di sattva e purua], insorgono (jāyante) [i sei sensi superiori] prātibha, śrāvaa, vedana, ādarśa, āsvāda e vārtā.

Vyāsa, nel commento al medesimo versetto, chiarisce la natura “divina” o “miracolosa” di prātibha e dei “super sensi”:

Da prātibha arriva la conoscenza del sottile, del nascosto, del remoto, del passato e del futuro. Da śrāvaa deriva la percezione dei suoni divini; da vedana la conoscenza del tocco divino; da ādarśa arriva la conoscenza del colore celeste; da āsvāda la cognizione degli odori superiori; da vārtā deriva la conoscenza dei gusti divini. Queste [sensazioni superiori] insorgono costantemente.

In buona sostanza, “andare oltre la mente” – ovvero avere accesso alla conoscenza intuitiva – sembrerebbe una gran bella cosa, tanto più che, sempre dai commenti di Vyāsa [vedi nota “3”], si viene a sapere che la realizzazione di prātibha preannuncia quella di “vivekajñāna” la conoscenza discriminativa grazie alla quale lo Yogī potrà, finalmente, raggiungere la realizzazione suprema, detta da Patañjali, Kaivalya;

Kaivalya è una condizione che nella Yogatattva-upaniad (16-18) viene così definita:

Kaivalya è la natura stessa del sé, lo stato supremo (paramam padam). È senza parti ed è inossidabile. È l’intuizione diretta dell’esistenza reale, dell’intelligenza e della beatitudine. È privo di nascita, esistenza, distruzione, riconoscimento ed esperienza. Questo è chiamato conoscenza.”

Kaivalya, è un sostantivo neutro, derivante dall’aggettivo “kevala” che vuol dire “solo”, “isolato”, “soltanto uno”; potremmo tradurre kaivalya con “isolamento” o con “solitudine”, parole che in noi, a dir la verità, non è che stimolino pensieri troppo positivi.

Anzi, nonostante ciò che diciamo nelle discussioni da social, l’idea che la meta ultima dello Yoga, la realizzazione raggiungibile grazie alla conoscenza intuitiva, sia in realtà uno stato di estrema solitudine è decisamente angosciante.

Ci insegnano che lo yoga conduce alla beatitudine suprema e alla fine, studiando lo Yoga Sūtra, scopriamo che lo Yogī è destinato al completo isolamento.

Si tratta di un insegnamento, difficile da digerire, per comprendere il quale bisogna considerare che lo Yoga di Patañjali è fondamentalmente un “Sāṅkhya-yoga” – ‘aspetto pratico del Sāṅkhya – e come il Sāṅkhya delle origini, il buddhismo e di altri lignaggi Nāstika è fondamentalmente “A-teistico”.

Nonostante l’accenno a Īśvara che alcuni traducono con “Dio” o con “Dio creatore”, per Patañjali la manifestazione non nasce per mano di un demiurgo – o, comunque, non si crea il problema dell’esistenza di un qualcosa che precede la potenzialità della manifestazione – ma insorge in seguito alla reciproca attivazione di due principi eterni ed autodeterminati:

  • Prakti, lo “Spettacolo”, che assume una valenza femminile;
  • Purua, lo “Spettatore”, che assume una valenza maschile.

Lo scopo di Prakti è quello di “esibirsi” per il Purua, e per far ciò fornisce al suo “Sposo” (come viene definito nel Tantra), gli strumenti di conoscenza per godere l’esperienza della manifestazione, ovvero la mente e i cinque sensi; ma qui si crea un Bug, dovuto all’identificazione di una funzione della mente, che potremmo definire Ego, con il Puruṣa, eterno e auto-luminoso; e dall’identificazione nasce la sofferenza dell’esistere, dovuta alla confusione tra atman e anatman, tra ciò che è permanente e ciò che è impermanente, tra ciò che è puro e ciò che è impuro.

La “Natura” allora, nella sua infinita “generosità” dopo aver fornito al Puruṣa gli strumenti per godere della manifestazione gli fornisce gli strumenti per discriminare tra “sé” e la “manifestazione”, tra lo spettacolo e lo spettatore, fino a restituirgli la consapevolezza del suo stato di perfetto “isolamento, auto-luminoso ed eterno”.

Per Patañjali “andare oltre la mente”, realizzare la “conoscenza intuitiva”, significa quindi intraprendere un viaggio che dovrebbe condurci a “kaivalya”, la solitudine perfetta del Puruṣa.

La domanda che noi praticanti di Yoga dovremmo porci, a questo punto, credo sia la seguente:

Siamo sicuri di voler abbandonare la dimensione della manifestazione?

Certo, la condizione di kaivalya è quella dell’assenza di sofferenza, e pare ovvio che “andando oltre la mente” supereremmo l’innata ansia di incompiutezza dell’essere umano, l’angoscia di vivere che ci serra la gola dal momento in cui diventiamo consci della mortalità nostra e dei nostri cari; ma rinunceremmo anche all’esperienza della gioia, al godere della bellezza del tramonto o del sorriso dell’amato.

Siamo sicuri di voler davvero rinunciare alla razionalità, all’esperienza individuale, ai colori della natura, in una parola sola alla “Vita”, per accedere ad una dimensione di non dolore nella quale non possono esistere né mente, né sensi, né “io” che possano testimoniare un’esistenza in forma di pura coscienza, eterna ed incolore?

Paolo Proietti, Laura Gabriella Nalin

BIBLIOGRAFIA

2 Per gli śakta [cfr. Kubjikāmatatantra] ad esempio, Pratibhā è il “genio creativo”, ovvero il potere creativo del Dio e, assieme, la consapevolezza di tale potere che vengono attivati dalla dea, da Śakti.

Per gli śaiva [cfr. Arasiha , Mahānayaprakāśa 182-197] Pratibhā rappresenta invece l’immaginazione “cosmogenica”, ovvero l’impulso che spinge il Dio alla creazione del cosmo; un Dio libero dai costrutti del pensiero, visto come una tartaruga che ritira costantemente gli arti e la testa in sé stessa edetto, perciò “Kūrmanātha”.

Nell’Arte della Poesia, Kāvyaśāstra, Pratibhā indica invece l’intuizione creativa, “il genio artistico” frutto un’impressione innata ( saskāra ) ereditata dalle nascite precedenti e senza il quale è impossibile scrivere poesie [o in genere fare arte] [cfr. Kāvyavilāsa, opera attribuita a Cirañjīva Bhaṭṭācārya].

3 Nel commento al medesimo versetto Vyāsa introduce il termine Tāraka,

pratibha nāma tāraka tadvivekajasya jñānasya pūrvarūpam. yathodaye prabhā bhāskarasya. tena vā sarvameva jānāti yogī pratibhasya jñānasyotpattāviti.

Prātibha è detta anche tāraka. Così come la luce dell’alba preannuncia il primo sole così prātibha precede la conoscenza discriminativa (vivekajñāna). Lo Yogī può anche conoscere tutto attraverso l’insorgere di prātibha.

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