Immagine di Saba Najafi
Come ci vuole tempo perché l’occhio si abitui all’oscurità e riesca a intravedere qualcosa, così ci vuole tempo e, soprattutto, impegno, perché si riesca a sentire qualcosa che prima sembrava neppure toccarci. Occorre smussare la corazza e lasciarsi scalfire dal tocco dell’elemento “sconosciuto”; rendersi disponibili. Non è un processo indolore, più si affina la sensibilità e più si diventa vulnerabili.
Nell’enigma misterioso che siamo, affinare la sensibilità comporta nuove scoperte di sé accompagnate inevitabilmente da colpi che fanno male. È questo il modo che ha la natura per farci comprendere qualcosa: entrare in contatto, toccarci.
La tendenza a volersi difendere, parare i colpi per non sentirne l’urto e, magari, contrattaccare per ottenere un’apparente vittoria (sull’ignoto… che illusione!) è forte. Se assecondiamo quella tendenza, tuttavia, rimarremo nell’ignoranza e il nostro apparato sensorial-cognitivo si contrarrà.
Se, invece, scegliamo di accusare il colpo, di riconoscerlo, quella che a prima vista è una sciagura dolorosa si rivelerà un’opportunità di avanzamento. In questo caso, uno strato del nostro ottundimento si assottiglierà. Cominceremo a sentire percezioni prima sconosciute. Amplieremo la nostra facoltà di intendere e si verificherà un’espansione nel nostro apparato sensorial-cognitivo.
Volendo mettere gli āsana dell’hatha yoga al servizio del jñāna yoga (lo yoga della conoscenza) a scopo introspettivo, potremmo prendere Baddha Konasana, la posizione c.d. della conchiglia. “La valenza simbolica di questo āsana sta nel gesto di portare la pancia verso la pianta dei piedi: un atto che consiste nel rivolgere quella che è la sede delle emozioni verso le pagine del libro, ovvero lo specchio della mente.”1 Baddha Konasana è un piegamento in avanti, formalmente una posizione di chiusura; eppure, dalla (ri)flessione si ottiene una maggiore comprensione e, quindi un’espansione della propria capacità percettiva. Spesso con le posizioni yoga riusciamo a comprendere attraverso il corpo qualcosa che per la nostra facoltà raziocinante è incomprensibile, addirittura contraddittorio. Come ci si può aprire a nuove conoscenze, chiudendosi?
Il viaggio alla scoperta di se stessi, ovvero la pratica dell’introspezione (in sanscrito, svādhyāya), che conduce alla Verità,2 passa attraverso una progressiva sensibilizzazione. La sensibilità che viene affinata è quella che consente di comprendere determinati meccanismi (comporta)mentali, certe dinamiche relazionali, che sono parte del nostro modo di stare al mondo. Comprenderli equivale a divenirne consapevoli, fare luce per vedere laddove prima si ignorava.
“Conosci te stesso, conoscerai gli altri, conoscerai l’universo” rivela l’oracolo di Delfi. Più approfondisci la conoscenza di te, più sarai in grado di comprendere come funzionano le cose che consideriamo “là fuori”, comprese le altre persone. Non è un percorso facile, come si diceva e come rivela un altro aforisma tratto dalla saggezza latina: “per aspera ad astra.” Nel mondo a tre sole dimensioni e un tempo lineare che noi siamo solitamente in grado di percepire può sembrare magia. Ma non lo è. Se impariamo ad affinare la nostra “sensibilità”, lo scopriremo sulla nostra pelle. Il corpo si farà veicolo di una “conoscenza” che, in verità, esula dal corpo.
NOTE
1 Tratto da «Yoga metaforico. Forme corporee e immagini mentali tra hatha e jñāna yoga», Anima edizioni (2024), p. 203.
2 V. articolo «La pratica yogica della verità» – Yoga Magazine