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Immagine “Natarajasana – la danza di Shiva” di Saba Najafi

Al giorno d’oggi, lo yoga è parecchio diffuso e praticato. Numerosi stili si contendono gli aspiranti praticanti e di nuovi ne vengono inventati a un ritmo impressionante. Si tratta di un fenomeno che, avendo raggiunto una notorietà tale, forse ha un po’ perso il contatto con le proprie origini.

Infatti, relativamente di recente si è imposta un’idea stereotipata di yoga, in base alla quale fare yoga servirebbe a vivere meglio. «Fare yoga (qualunque sia il tipo o lo stile) per “vivere meglio” significa sostanzialmente usarlo come uno strumento per adattarsi al contesto sociale nel quale si vive, per diventare più performanti in vista delle esigenze di riproduzione del suo stesso modello economico.» (tratto da “Yoga Metaforico. Forme corporee e immagini mentali tra hatha e jñāna yoga”, Anima Edizioni 2024).

Invece, nelle tradizioni ascetiche più antiche, non soltanto del contesto asiatico, ma anche di quello occidentale a noi più prossimo, il fare esercizio (ἄσκησις in greco) è volto a dissolvere, piuttosto che a rinsaldare il legame con il mondo. Le pratiche che le diverse discipline prescrivevano dovevano cioè condurre a una condizione di “distacco” dalle logiche esistenziali correnti.

La meta del percorso ascetico viene espressa con diversi termini: samādhi, kaivalya, nirvana, liberazione, redenzione, illuminazione, realizzazione. Se chiediamo a un qualunque praticante odierno di yoga per quale motivo si cimenti con la pratica sul tappetino, quale obiettivo intenda raggiungere, sarà improbabile trovare nella risposta uno dei termini suddetti. Tuttavia, chi fa yoga nel modo prescritto, ossia portando l’attenzione al corpo e a quello che lo muove – sensazioni, emozioni, pensieri – , non rimarrà esente dagli effetti, per così dire, collaterali della pratica.

In che modo, ci si potrebbe chiedere, questi effetti vengono attivati ? Intercettando sul tappetino il singolo muscolo che sta lavorando oppure quello che non dovrebbe farlo per mantenere la posizione, si impara a conoscere meglio il proprio corpo. Tale conoscenza verrà poi traslata in altri contesti, portando a riconoscere gli atteggiamenti che si mettono in atto, per lo più inconsapevolmente, nella vita di ogni giorno. In altre parole, la presenza che viene portata al corpo durante la pratica si riattiva nel gesto quotidiano, aumentando la consapevolezza.

Yoga come strumento di Conoscenza

Fare esercizio in questo modo, contribuisce ad accrescere la conoscenza di sé e porterà a scoprire qualcosa che non si era messo bene a fuoco e che, probabilmente, impedisce di vivere appieno. “Vivere appieno” significa vivere in maniera più consapevole, rendendosi cioè conto di quello che ci muove e che finisce per determinare i nostri convincimenti e le nostre azioni. Già… perché spesso, troppo spesso, non ne siamo consapevoli e veniamo letteralmente “mossi” come burattini, tirati da fili invisibili, ma tangibili. Ecco, spezzare, in un certo senso, quei fili è l’obiettivo ultimo di una pratica yoga intrapresa con l’intenzione di conoscersi meglio. Dalla comprensione sorgerà la necessità di cambiare: da automi a padroni di se stessi; questa è, a mio parere, la più grande conquista a cui può condurre lo yoga.

Che sia hatha – prettamente corporeo e posturale – oppure jñāna – volto a un’indagine di tipo introspettivo – lo yoga porta a una progressiva presa di coscienza di quello che siamo diventati e che, magari, non ci corrisponde alla perfezione. Solitamente, si comincia a fare yoga per sistemare qualcosa (una cervicale dolorante, l’insonnia che non fa dormire, l’ansia che attanaglia il respiro, etc.) e ci si aspetta di mettere a posto alcuni tasselli; perché è così che ci consideriamo, un insieme di componenti da “aggiustare”.

In realtà, quello che fa lo yoga, prima di tutto, è decostruire. Inizialmente, ci si potrebbe cioè trovare a perdere i consueti punti di riferimento, in una sorta di sfaldamento della propria identità. Questo avverrà, tuttavia, per portarci a comprendere che tale identità era limitata, una creatura di nostra costruzione che, se ci dava una certa sicurezza, finiva per imbrigliarci dentro copioni per lo più angusti della nostra esistenza. Allora, il perdere l’identità consueta può avverarsi come una benedizione per chi saprà fare di tale momento di disorientamento il trampolino di lancio verso una nuova, anzi, potenzialmente illimitate, nuove esistenze.

“Tu sei Tutto: hai in te tutte le contraddizioni, tutti i respiri di ogni vivente,
tutte le misure e le dismisure, ogni vibrazione atomica e ogni galassia.
Porta il tuo senso della misura a livello infinito.”

Edoardo Camurri, Introduzione alla Realtà, Timeo (2024)

Mara Valenti

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