Nella foto: Gyantse Dzong o Castello di Giantse. Nel 1904 le truppe Inglesi agli ordini di Sir Francis Edward Younghusband vi massacrarono migliaia di monaci tibetani.
Fonte: https://en.wikipedia.org/wiki/Gyantse_Dzong
Il Viaggio a Gyantse e la Ragazza con i Capelli Ricci
Secondo il Vedānta l’essere umano ha la possibilità di esperire, normalmente, tre diversi stati di coscienza, viśva, taijasa e prajñā, che potremmo identificare con veglia, sogno e sonno profondo.
Si tratta di tre regni diversi, ognuno con proprie leggi e consuetudini, solitamente ben distinti e separati; talvolta però, per via di tendenze innate, pratiche particolari o malattie di vario genere, accade che i confini scompaiano; le tre dimensioni si confondono, allora, una con l’altra generando eventi in grado di trasformare, per sempre la nostra vita e la nostra visione del mondo.
Una delle tecniche insegnate nello Yoga – soprattutto, per la mia esperienza, nello Yoga tibetano – per permettere il viaggio da un regno all’altro, viśva, taijasa e prajñā, è quella del sogno lucido.
Nel 1996 Lobsang Jinpa, docente del “Gashar Ngari Khangtsen”, Karnataka State, mi aveva insegnato sia una serie di tecniche di visualizzazione e di respirazione, sia a distinguere i “sogni veri”, come li chiamava lui, dai frutti dell’immaginazione: quando sei testimone e attore del sogno e puoi vedere te stesso come fossi il protagonista di un film puoi star sicuro che si tratta di una fantasia ricostruita dalla mente; se invece hai una percezione di te stesso come nel mondo di veglia si tratta o di un ricordo o di un “viaggio astrale” o, comunque, di un qualcosa che può rivelarsi importante per il tuo cammino spirituale.
Non sono mai stato un grande estimatore dei sogni lucidi o dei viaggi astrali – credo che non abbiano effetti positivi sulla mente del praticante – e dopo qualche esperienza, assai destabilizzante, con i tibetani, decisi di abbandonare per sempre – o così credevo – la pratica del “milam”1.
Nel 2010 però feci un sogno strano, un apparente (?) viaggio nel passato che non posso non collegare alle pratiche di allora e che, indubbiamente, ha cambiato completamente la mia vita.
Nel mio sogno ero lucido, sapevo di sognare, ma, come nella vita ordinaria, potevo vedere di me stesso, abbassando lo sguardo, solo il naso, le braccia, e la parte davanti del corpo. Ero vestito come un monaco tibetano e mi stavo inerpicando su un sentiero di montagna insieme ad una ragazzina, anche lei con la tunica amaranto. Non sembrava tibetana: aveva la pelle scura, ma i lineamenti erano quelli delle donne thai, con le labbra carnose, gli zigomi alti e gli occhi grandi e scuri. I capelli erano ricci, e scomposti, cosa che nel sogno mi sembrava normale, ma, a ripensarci era parecchio bizzarra (quando mai si è vista una orientale con i riccioli?).
Stavamo scherzando in una lingua che non conosco. La terra era rossastra, e anche le rocce. Arrivati all’entrata di una grotta, sento i lamenti del nostro maestro (nel sogno sapevo che era lui) e qui il ricordo si fa confuso. Qualcuno lo aveva ferito, c’era un coltello, strano, con la lama larga e ricurva2. Il mio io di sogno era furibondo. Prendo il coltello e colpisco una roccia che, a sorpresa si apre in due come un’ostrica. Dentro ci sono le immagini di noi tre, il maestro, la ragazza ed io, nelle vite precedenti, sempre insieme. Il maestro a volte aveva la barba bianca e i capelli lunghi come i guru dei santini, altre era calvo, ma era sempre lo stesso. Ricordo di aver sentito degli spari. uscì dalla grotta e mi trovai davanti un sacco di soldati vestiti come gli esploratori dei fumetti dell’Uomo Mascherato. Parlavano in inglese – credo di aver distinto le parole young husband, giovane marito – e sparavano all’impazzata. L’ultima immagine che ebbi prima di svegliarmi fu quella di una specie di castello con le mura bianche e i tetti rossi.
A quei tempi seguivo gli insegnamenti dell’Advaita Vedānta sotto la guida di Premadharma-Bodhananda, un personaggio stravagante, amico personale dello Śaṅkarācārya di Kanci. Lo definivo “il mio riferimento”, come si usava dire allora. Gli telefonai per raccontargli il sogno e lui dopo avermi fatto la solita ramanzina – “le vite presenti e passate sono un’apparenza fenomenica… I sogni non esistono…L’unica realtà è il Brahman…mantieni stabilmente la mente sul Brahman…” – mi disse che, quando avrebbe trovato il tempo, mi avrebbe scritto. La mail arrivò dopo un paio di giorni. Le parole di Premadharma erano, come sempre bellissime, ma non certo di immediata comprensione:
Si usava un tempo legare un fratello e una sorella per la vita. Si attuava l’inversione fra fuoco e acqua […]. Era un evento raro.3
Secondo gli insegnamenti che mi stava impartendo Premadharma le storie legate alla teoria della reincarnazione sono completamente inutili per un “ricercatore della verità”: se la vita “è il sogno sognato da un dio che dorme”, le vere o presunte vite precedenti sono un sogno al quadrato. Perdere tempo ed energie ad inseguire improbabili tracce di esistenze passate, per un ricercatore, è attività inutile, se non dannosa.
Lo ripeto spesso, ancora oggi, ai miei allievi, però la ragazzina con i capelli ricci, la conchiglia delle incarnazioni e il castello bianco continuavano a “graffiarmi le sinapsi”. Disubbidendo a Premadharma feci una ricerca immagini su Google e trovai, quasi subito, il castello bianco con i tetti rossi che avevo sognato: era il Gyantse Dzong, o Fortezza di Gyantse.
La storia, recente, del Gyantse Dzong sembrava confermare gli eventi del mio sogno: nel 1904 le truppe anglo-indiane agli ordini di Francis Edward Younghusband (young husband!) erano entrati in Tibet, avevano occupato il Gyantse Dzong e prima di marciare verso Lhasa avevano massacrato migliaia di monaci tibetani; quando lessi che le truppe di Younghusband erano formate in gran parte da gurkha nepalesi, e che molti monaci erano stati sgozzati con i Kukri, gli strani coltelli dalla lama ricurva uguali a quello del mio sogno, mi sentìì quasi male.
I ricordi di vite precedenti, i déjà vu, le precognizioni possono essere spiegate in decine di maniere diverse, senza bisogno di aggrapparsi al paranormale: nel caso del mio sogno è possibile che avessi visto qualche documentario da bambino o che avessi sfogliato distrattamente qualche rivista tipo “Storia Illustrata” che parlavano del “massacro di Guru” (nome con cui sono ricordate le gesta di Younghusband), ma in quel momento, lo ammetto, ero pienamente convinto di essere la reincarnazione di un monaco tantrico ucciso nel 1904.
Una convinzione con la quale, da aspirante advaitin, lottai a lungo: quando sfioriamo la dimensione magica si entra in uno stato alterato; una semplice assonanza di parole, o un vago sentore di familiarità si trasformano in coincidenza significativa, e tutti gli eventi singolari, strani o inspiegabili che la mente bambina ha accatastato nella memoria in attesa di risposte, improvvisamente si legano tra di loro seguendo una logica che, magari solo per noi, assume l’aspetto della verità incontrovertibile. Di fatto, però non riuscivo a togliermi dalla mente la ragazzina con i ricci e la faccia da dea birmana e mi chiedevo, ingenuamente, che fine avesse fatto.
Qualche mese dopo, Malcolm Bilotta, lo psicologo che aveva dato vita al gruppo Yoga Vedanta4 mi organizzò uno stage residenziale alle Querciole di Granara, un casale sulle colline intorno a Borgotaro. “Śiva Śakti: Ricreazione Rituale dello Spazio”, così si chiamava lo stage.
Era l’8 ottobre 2010, me lo ricordo perché iniziavano proprio quel giorno i festeggiamenti per navaratri, le nove notti di Durgā, una delle feste più importanti dell’induismo. Quando entrai nella sala di meditazione, una sala bellissima, di pietra e legno con finestre alte fine al soffitto che davano sul bosco, gli altri, 24, 25 persone, erano già seduti sui tappetini. Oltre a Malcolm e a sua moglie, Petulia, c’erano i miei amici/fratelli di sempre: Fabio Cozzi, Gianni Bencista (GB), Andrea Pagano, Sandro Nalin (Yoga San), Onofrio Amendola, Riccardo Cassian Ingoni, Marco Rotonda. Riconobbi anche degli allievi di Malcolm qualche settimana, prima ad una mia conferenza. C’era anche una ragazzina (così credevo) con i capelli lisci, a caschetto. Era Laura la sorella di Sandro Nalin; era appena tornata dal Brasile dove aveva vissuto per anni, e per l’occasione, mi disse Sandro, si è lisciata i ricci, come fanno le brasiliane per addomesticare i capelli troppo crespi. Non l’avevo mai vista prima di allora, né avevo mai sentito parlare di lei.
A Borgotaro, con Laura, nell’ottobre del 2010 feci per la prima volta l’esperienza di ciò che oggi chiamiamo la “Bolla”, uno stato psicofisico nel quale lo spazio e il tempo sembrano rarefatti. Ricordo che stavamo meditando a coppie, un esercizio semplice che mi aveva insegnato Jinpa: si tratta di cercare il proprio volto e il proprio sguardo negli occhi del partner. Gli effetti della pratica che feci con Laura furono devastanti. Rimasi per tutto il week end in uno stato di alterazione percettiva: le mani vibravano, i suoni e colori erano così vivi e presenti che pareva di toccarli, e la pelle sembrava così sottile che avevo paura si sciogliesse da un momento all’altro.
Ricordo che Laura si mise a piangere, a un certo punto, senza motivo ed io le leccai le lacrime – “È acqua di Vita” – le dissi. Assurdo vero? E la cosa ancora più assurda è che ci sembrò assolutamente naturale. Anzi, lo era.
Ricordo anche che ci baciammo, l’8 ottobre 2010. Non raccontammo a nessuno quello che ci era successo. Non ne parlammo nemmeno tra di noi, ma non ci siamo più lasciati.
L’idea che Laura ed io, in una vita precedente, fossimo una coppia tantrica è affascinante: il nostro percorso iniziatico sarebbe stato interrotto dall’invasione inglese, ma il legame che ci univa sarebbe sopravvissuto alla morte e il nostro incontro, preannunciato dal sogno lucido, avrebbe fatto saltare le barriere proiettandoci in una specie di sfera magica, al di là del tempo, pronta ad attivarsi ogni volta che meditiamo insieme o ci baciamo.
Un’ipotesi affascinante e, ovviamente, poco verosimile perché impossibile da provare. La suggestione quando si pratica Yoga è sempre in agguato.
Comunque sia non si può negare che l’intrusione delle altre dimensioni nella realtà di veglia abbia provocato degli effetti tangibili: dopo quel sogno – era la primavera del 2010 – la mia vita e quella di Laura sono state completamente trasformate.
Oggi viviamo di Yoga e per lo Yoga e non di rado assistiamo – o crediamo di assistere – all’integrarsi del mondo di veglia con il mondo del sogno, delle allegorie e delle coincidenze significative. Abbiamo costantemente la sensazione di essere in viaggio; un viaggio iniziato nel 2010, o forse nel 1996, quando sono stato istruito da Jinpa, o chissà, nel 1904, quando i Gurkha nepalesi massacrarono, si dice, diecimila monaci tibetani nei pressi di Giantse.
A pensarci bene nessuno può dire con certezza quando il viaggio abbia avuto inizio o quando avrà fine, e anche se si potessero riconoscere il punto di partenza e la meta finale che importanza avrebbe?
È il viaggio l’unica cosa che conta.
NOTE
1 “Milam” o “rmi lam rnal ‘byor” è il nome tibetano dello Yoga del Sogno; il nome sanscrito è invece svapnadarśanayoga
2 Scoprì in seguito che si trattava di un khukurī o Kukri, il coltello tipico dei gurkha nepalesi.
3 Ecco il testo completo della mail di Premadharma:
Si usava un tempo legare un fratello e una sorella per la vita. Si attuava l’inversione fra fuoco e acqua […].
Era un evento raro”
Era uno dei primi passi per la completezza.
Ma solo se questa completezza doveva essere applicata.
Era un evento raro.
Attuare l’inversione.
Essere acqua, trovarne l’essenza acciaio, tornare alla madre e da questa al padre.
E questo si dissolve verso l’alto per tornare come acqua.
Il cerchio è perfezione, è punto.
Lo percorro in un senso o nell’altro.
Se sei il cerchio sei il centro.
Se sei il centro sei il cerchio.
Non c’è “una” via, ci sono tutte le vie sul cerchio.
La spada serve per entrare nel cerchio dove non serve più alcuna spada.
Sguaino la spada, non cerco il suo bersaglio, non sono l’artefice del movimento, è la spada che mi muove, è la spada che è uscita dal fodero.
E’ nel cerchio che crea che mi trovo, uscire ed entrare dal fodero.
L’inizio e la fine coincidono, nel loro coincidere “giace” l’intero universo lungo il cerchio creato.
La spada entra nel fodero. La spada esce dal fodero.
Da quell’unico fodero escono mille spade.
Quell’unica spada entra in mille foderi.
L’uno e il molteplice.
Eppure sono una spada e un fodero nel presente.
E sono sempre uno in ogni presente.
Nel divenire essi sono mille e mille che si incontrano tutti non a caso.
Ma sono sempre la spada, fatta di un’anima e di un fodero.
4 Vedi HATHAYOGA, LA LINGUA PERDUTA DEI VEGGENTI, Edizioni Aldenia, Firenze 2016