La prima volta che ho perso un aereo avevo da poco compiuto 18 anni.
Per la prima volta avevo una lingua straniera in testa.
Per la prima volta, avevo scelto le persone attorno a me, e da sola le avevo salutate.
Per la prima volta era mia la responsabilità di una domanda: mo’ come torno a casa?
In quel viaggio di rientro, per la prima volta, ho colto il lusso del tempo: il tempo scomodo, il tempo sconnesso. Per la prima volta sono tornata in Italia con un autobus.
La sensazione di quel rientro alla mattina me la ricordo bene, perché mi ci feci una foto. Ero tutta addormentata e promisi di mantenere sveglia l’intuizione di aver rispettato il mio tempo. Era successo nel perdere un aereo, mi aveva permesso di onorare il peso dei cambiamenti legati a quel viaggio e poi allungare il viaggio stesso aveva concesso un’attesa allo shock del rientro.
Ci chiediamo mai nella fretta dei flow e dei vinyasa, dove sta l’Unità se ci dimentichiamo del tempo necessario a esplorarla?
Nella velocità di un rientro in aereo nessun sostegno sarebbe arrivato per il mio cambiamento. Credo che se è vero che Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere (1) , allora anche il tempo di percorrenza di un viaggio ha il potere di disegnarne una forma e un impatto.
Nei miei viaggi quotidiani, oggi che vivo in una metropoli, sento spesso la voce del mio maestro. La lingua che ho in testa qui è la stessa che avevo in mente l’anno che scoprii il valore del tempo d’attesa e così, ad ora, ascoltarlo in inglese mi concede di scoprire un’altra qualità del tempo d’attesa: quello che mette del distacco fra me ed il resto.
In effetti, in questi miei tragitti oggi frequenti, ripetuti, a volte scomodi, spesso fatico a restare su me stessa e mi piace sentire la sua voce perché mi fa tornare dentro. Mi regala del silenzio e mi ricorda sempre qualcosa. Nel mio viaggio in India per la prima volta qualcuno mi ha detto che esiste sempre una scelta in questa vita tra l’amore e la paura. Per la prima volta quel qualcuno ha dato una prospettiva nuova alla mia piccola vita, leggendo alcuni avvenimenti come una coraggiosa virata di bordo verso l’amore.
In qualsiasi momento di silenzio e di pratica o nei momenti di celebrazione e di pratica, una delle dualità più ardue da dissipare per me è sempre la stessa: amore – paura.
E così nel viaggio dalla comune del mio maestro alla Parigi dove vivo oggi, la mia pratica ha cercato una continua esplorazione di questo incrocio. In questa sento di riconoscere l’amore come un valore inclusivo, un modo di essere e non di agire, oltre le imposizioni di una sua forma, perché l’amore è quello che sostiene. E la paura è il suo riflesso in ogni cosa altra e quando ho paura è perché osservo tanto altro intorno a me.
Nella mia pratica di Hatha yoga dopo tanti anni mi chiedo in che modo sto cercando di lasciare carta bianca a questo amore. Quando mi manca il fiato in una postura, o quando non ne uscirei mai, che cosa cerco? Da dove può approfondirsi la mia ricerca? Nello yoga posturale a volte si cerca di capire, di studiare, di arrivare, poi a volte nella fretta si va pure troppo lontano, senza pensare a cosa si dovrebbe cercare. Ad esempio capita di allungare troppo, di copiare troppo, si prova troppo, si forza e ci si sfinisce, rischiando così di perdersi, giusto per tentare la soddisfazione di raggiungere un punto.
Nel viaggio che si compie ogni volta che ci si addentra in un asana è fondamentale sperimentare nel corpo il ricevere e il donare. Se si compie l’esperienza sulla propria pelle si prende coscienza di quale parte è pronta a ricevere e quale invece è già lì a dare il suo sostegno: si tratta di sentire. (2)
Se si accettasse la pratica come un insieme di qualità da portare nel proprio viaggio, anziché come un insieme di azioni mirate a dimostrarlo, ci si accorgerebbe di quanto nel presente esistano già una o più parti di noi capaci di sostenersi. Capaci purché aiutate, ma presenti nel loro esserci già.
Se si riconoscesse intrinseca alla pratica di asana la qualità propria che l’attesa porta con sé, ci si accorgerebbe che basta poco per sentire che c’è già, qui ed ora, quella parte del corpo che può dare perché è stabile; mentre la parte che necessita di ricevere sostegno viene semplicemente riconosciuta. Una volta che le si fa spazio, questa parte da sostenere può venir portata a trovare la sua strada, con dei props o con aggiustamenti manuali o con qualsiasi strumento esterno utile. Per compiere questo viaggio c’è una comunicazione tra il sé e la parte da sostenere che resta fondamentale.
Dare una voce a questa comunicazione significa chiedersi: che cosa sto cercando?
Nella mia esperienza, se la pratica apre una strada verso il centro di sé, ha le stesse qualità di un viaggio. Per il semplice fatto che in quanto forma di ricerca, vorrebbe risvegliare della presenza, della coscienza, rendendosi una pratica meditativa. Capace di abbattere tante paure.
Così come il tempo porta supporto e sollievo nel movimento emotivo dovuto a uno spostamento fisico, allo stesso modo anche i movimenti del corpo sottile hanno necessità di un sistema a loro sostegno. Una volta che si trova un metodo compensativo con cui esplorare, una volta che si rispetta il proprio tempo interiore e lo si sostiene, si inizia ad aprire il cuore. Ed è così che piano piano si torna a casa.
BIBLIOGRAFIA
1. Daniel Pennac, Comme un roman, Gallimard 1995
2. Betty Martin DC, The Art of receiving and giving, Luminare Press 2021