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Foto di Enrico Procentese

“Il prana sta allo yoga come l’elettricità alla civiltà contemporanea. Ce ne ricordiamo solo quando manca la corrente”

Ho avuto la fortuna di condividere il primo respiro della persona che mi è più cara al mondo. E l’onore di accompagnare, con un battito di ciglia e un tonfo al cuore, l’ultimo respiro della persona a cui devo ciò che sono. Parlare di respiro, per me, è una cosa seria, raccordo tra ogni possibile passato, presente e futuro. Nel segno dell’Amore.

Arriva, presto o tardi, il momento in cui respirare smette di essere un gesto automatico, una funzione scontata. Se non si tratta del sopraggiungere di una malattia, di solito è il momento in cui ci si comincia a domandare da dove vengo? perché sono qui? dove sto andando? Quel momento in cui s’inizia a cercare il nesso tra corpo, mente e spirito, in cui scopriamo di essere più del nostro corpo fisico. Da allora in poi le definizioni scientifiche risultano insufficienti, anche le più espansive che ammettono come la respirazione influisca in modo decisivo non solo sulle funzioni fisiologiche, ma anche sulle emozioni, sulla memoria e sull’autocontrollo.

Partiamo dall’enciclopedia. La Treccani, alla voce “respirazione”, recita: «Processo fisiologico, essenziale per gli esseri viventi aerobici (uomo, animali e vegetali), che consiste nell’assunzione dell’ossigeno atmosferico e nell’eliminazione di anidride carbonica e acqua, per mezzo di apparati e organi diversi (polmoni, branchie, trachee e inoltre diffusione dei gas attraverso la superficie corporea). La r. consiste essenzialmente in uno scambio gassoso tra gli organismi viventi e l’ambiente. In tale processo si possono distinguere due momenti fondamentali: la r. esterna, in cui l’ossigeno ambientale viene assunto secondo diversi meccanismi, in rapporto con il grado di complessità dell’apparato respiratorio, e la r. cellulare, consistente in un processo di ossidazione aerobica di materiali nutritizi, che si svolge all’interno delle strutture cellulari in presenza di ossigeno, con liberazione di energia e produzione di anidride carbonica».

Quanta chimica in un gesto automatico che nel corso della vita ripetiamo in media 670 milioni di volte! Peccato, però, che secondo il giornalista scientifico James Nestor, che ha scandagliato centinaia di studi sul tema, si è sottoposto ai test più estremi e ha viaggiato ovunque alla scoperta “dell’arte e della scienza della respirazione” (si veda il suo L’arte di respirare, Aboca, 2021), «il 90% delle persone respira oggi in modo scorretto: vale a dire troppo, oppure spesso e volentieri dalla bocca, oppure con inalazioni nasali brevi, contratte e frettolose… Ci sono ragioni evolutive per cui quella umana può essere considerata senza tema di esagerare la peggiore respirazione nel regno animale». Solo in tempi recenti, osserva Nestor, la scienza ha cominciato a misurare empiricamente ciò che popoli antichi come i nativi delle Grandi Pianure e i buddhisti tibetani avevano già compreso con l’intuito.

Ed ecco il gancio con un’altra prospettiva. Per gli antichi greci la psyché (ψυχή) indicava non solo un’anima sensibile e una mente riflessiva, ma anche il soffio che dà la vita e dona al corpo l’anima e la mente. E per le medicine orientali la respirazione non è mai stata concepita come semplice ingestione di ossigeno, ma come fonte di un’energia invisibile, quella forza vitale chiamata “qi” dalla medicina tradizionale cinese e “prana” negli antichi testi di yoga.

André Van Lysebeth, tra i pionieri dello yoga in Occidente e autore, tra gli altri, di quella che io definisco la “Bibbia” del pranayama (Pranayama – La dinamica del respiro, Astrolabio), considera il prana (con la P maiuscola) l’origine e la somma totale di tutte le energie dell’universo. Ma anche l’energia in qualunque forma differenziata manifesta (in questo caso con la p minuscola) come il magnetismo, la gravitazione, l’elettricità e come quella che anima l’uomo. Energia, in quest’ultimo caso, la cui manifestazione più facilmente percepibile è, appunto, il respiro. Ciò che caratterizza la nostra vita è proprio la capacità di attirare prana dentro di noi, accumularlo e trasformarlo per agire sull’ambiente interno e nel mondo esterno. Tra mentale e prana, infatti, esiste un’interazione che va molto al di là del piano fisico: il nostro corpo pranico e il nostro corpo fisico si interpenetrano: il primo ne è il vero animatore, la forza vitale, uno strumento al servizio dell’io. Attraverso il pranayama, la scienza di controllo del prana, gli yogi arrivano addirittura ad arrestare il battito del cuore.

L’atmosfera è la fonte più importante di prana vitale, costituito in maniera preponderante da particelle elettrizzate (ioni negativi). D’altra parte, esiste nel nostro corpo un vero e proprio metabolismo dell’elettricità attinta dall’atmosfera: l’organismo assorbe elettricità atmosferica (dalle narici, dagli alveoli polmonari, dalla lingua e dalla pelle), la utilizza e scarica l’eccesso attraverso la pelle, che non è una semplice “busta”, ma uno dei nostri organi più importanti e voluminosi. Più questo metabolismo è attivo, più l’essere è “vivo” e in buona salute. I condotti principali del prana sono le nadi (in sanscrito, letteralmente, “tubi”), che secondo l’anatomia yogica nel nostro corpo sarebbero addirittura 72.000. Le due principali sono Ida, il conduttore di energia corrispondente alla narice sinistra, e Pingala, l’omologo di destra, che raggiungono e percorrono la colonna vertebrale attraversando i principali chakra.

A proposito di controllo del prana il grande protagonista è il Kumbhaka, cioè la ritenzione del respiro, che provoca una liberazione di energia seguita da una sua migliore ripartizione in tutto l’organismo. La fase di ritenzione è la più importante, sia fisiologicamente che psicologicamente, con l’obiettivo di stimolare la sola e vera respirazione: quella interna, che ha luogo in ogni cellula. Ne risulta una magnetizzazione del corpo e una sua rivitalizzazione mediante l’attivazione di processi biologici di combustione intracellulare. La respirazione cosiddetta esterna, invece, include semplicemente tutti i meccanismi nervosi e muscolari necessari all’entrata dell’aria nei polmoni, allo scambio gassoso negli alveoli e al rigetto dell’aria usata. La respirazione completa si sostanzia quindi in quattro tempi:

  1. Rechaka: espirazione (la fase più importante);
  2. Kumbhaka a polmoni vuoti;
  3. Puraka: inspirazione (la cui efficacia dipende dalla prima);
  4. Kumbhaka a polmoni pieni.

Per bloccare correttamente il respiro occorre aver effettuato preventivamente un minimo di cinque respirazioni complete, senza amplificare l’ultima. Verso la fine, l’inspirazione rallenta per trasformarsi in un arresto totale del respiro. A questo punto è necessario focalizzare la propria attenzione su ciò che accade nel corpo, specialmente nel torace, e ascoltare i battiti del cuore. La ritenzione prolungata, stimolando il vago (per intenderci quello che fa venire l’acquolina in bocca, rallenta il polso, amplifica la peristalsi…), produce una diminuzione dei battiti del cuore, che inizia a pulsare con calma e potenza. Poi sopravviene la coscienza della circolazione sanguigna sotto forma di una pulsazione che sembra far vibrare tutto il torace. Ḕ importante lasciare che l’espirazione si scateni da sola e fluisca lenta, continua, completa, terminando con l’espulsione degli ultimi resti d’aria grazie a una contrazione dei muscoli intercostali e addominali. Alla fine dell’espirazione, si trattiene di nuovo il respiro per alcuni secondi, per poi lasciare che l’inspirazione si avvii spontaneamente. Molto importante, durante tutto il processo, è il comportamento attivo della cintura addominale. Nell’ottica del pranayama, inoltre, Jalandhara bandha (contrazione della gola e alloggiamento del mento sul petto) accompagna obbligatoriamente qualsiasi ritenzione prolungata del respiro (a polmoni pieni): sigilla il respiro nel torace, comprime le arterie che vanno al cervello e arresta il flusso sanguigno che scende verso il basso.

Prima di “iniziare” a respirare qualche avvertenza è d’obbligo: «Cominciate sempre col pulire le narici. Non lavorate mai con la colonna vertebrale curva. Non parlate col primo venuto della vostra pratica. Non siate troppo timorosi. Non arrivate mai fino alla stanchezza. Appena questa si manifesta, interrompete l’esercizio e fate Shavasana». Parola di André Van Lysebeth.

Viola Shanti

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