“Inspira, e Dio ti si avvicina. Tieni il respiro, e Dio rimane con te. Espira, e ti avvicini a Dio.
Mantieni l’espirazione, e arrenditi a Dio.”
— Tirumulai Krishnamacharya.
Quale aforisma può rappresentare meglio la potenza intrinseca del Pranayama se non questo concetto del grandissimo Maestro T. Krishnamacharya?
Lo yoga è una disciplina molto complessa e molto profonda che può vantare il fatto di detenere la vera conoscenza della vita. Proprio per questo motivo, moltissime sfumature sottili di questa disciplina non vengono quasi mai osservate, o percepite indistintamente da chi pratica come allievo e chi come docente.
In questa società con un senso pragmatico dominante, e spesso con ragionamenti rasoterra, diventa difficile comprendere ad esempio il Pranayama, a mio personale avviso, l’elemento yogico per eccellenza.
Proprio grazie al pranayama, e con lo studio o l’osservazione della pausa tra inspirazione ed espirazione, e tra i respiri, ricercandone l’eliminazione al ne di costituire un flusso unico, silenzioso ed ininterrotto, si possono raggiungere stadi mentali elevati.
La parola prânayâma ha il significato fondamentale di «controllo del respiro», e comprende numerose tecniche di modificazione cosciente della funzione respiratoria. Alcune scuole sostengono che sotto tale nome si possono comprendere soltanto le tecniche che prevedono, almeno come scopo finale, lunghe ritenzioni, altre ammettono in questa classe di pratiche anche procedimenti di espansione e prolungamento volontario, attribuendo alla parola anche il senso di «estensione del respiro».
Infatti una caratteristica che differenzia la funzione respiratoria dalle altre funzioni dell’organismo è quella di poter essere sia spontanea e inconsapevole che volontaria, con la possibilità di modificare l’ampiezza, la localizzazione e la durata delle varie, fasi respiratorie.
La straordinaria importanza che la tradizione yoga attribuisce alle pratiche respiratorie dipende dal fatto che il respiro riflette momento per momento lo stato psicofisico dell’individuo, e varia in relazione allo stato generale dell’organismo, all’attività sica e alla condizione mentale. È facile osservare che la collera, la paura, la gioia e tutte le altre emozioni variano la profondità e il ritmo del respiro.
D’altra parte il fatto di respirare in un determinato modo rinforza l’emozione corrispondente. Come è affermato nella Hathayoga-pradipika, nella lezione 2 al sutra 2 quando il respiro è instabile la mente è instabile, quando il respiro è stabile la mente è stabile.
चले वाते चलं योगी णु मा ले लं
भवेत् ततो वायुं रोधयेत्॥२॥
cale vate calam cittam niscale niscalam bhavet|
Yogi sthanutvamapnoti tato väyum nirodhayet II 2.
“Quando il respiro (vata) è irregolare la mente è instabile, quando il respiro si ferma anche la mente diviene calma e lo yogi raggiunge l’immobilità assoluta.
Per questo si deve trattenere il respiro (väyu)”.
Le tecniche di prânayama hanno lo scopo di allenare il praticante ad arresti del respiro sempre più agevoli e prolungati, preparandolo all’esperienza della sospensione spontanea del movimento respiratorio, scopo finale del prânâyama. Tale esperienza induce una stabilità mentale che rende possibili le pratiche superiori dello Yoga; negli Yoga-satra si afferma che squarcia il velario che nasconde la luce.
Questo tipo di esperienza è molto difficile da raggiungere e, d’altra parte, non può essere provocata volontariamente. Il praticante deve eseguire le tecniche di controllo volontario con animo sgombro da attaccamento e disposto ad accettare qualunque risultato si presenti. Il suo compito è quello di creare le condizioni perché le esperienze possano avvenire, eseguendo tecniche via via più intense, che gradualmente modificano la sua personalità e i suoi stati di coscienza, avvicinandolo agli stati meditativi.
Per eseguire nel modo più efficace queste tecniche è necessario comunque migliorare dapprima il più possibile il respiro spontaneo.
La pratica di yoga, se fatta con costanza e perseveranza in modo graduale, ci porta a percepire il corpo fisico fino ad un livello sempre più sottile fino a percepire il Prana ed i suoi movimenti, conquistando la capacità di controllarlo e quindi guidarlo attraverso Asana e Pranayama.
Il Prana è la forza vitale che permea ogni essere vivente e permea l’universo in ogni sua manifestazione, un forma d’intelligenza che coordina i nostri sensi, intuito e fisiologia.
All’interno del corpo fisico, il Prana si suddivide in 5 specie, chiamate PranaVayus, che alimentano le funzioni fisiologiche ed i vari atteggiamenti mentali.
Specialmente oggi, lo yoga si sviluppa e si pratica in prevalenza con le asana, creando sequenze più o meno creative, con una storia dietro, quando il più delle volte ci si dimentica del senso della Sadhana (pratica), ed il Pranayama viene spesso bypassato o portato in secondo piano, con qualche semplice respirazione, in modo approssimativo.
Seguendo Patanjali e il suo Ashtanga yoga, non a caso le asana vengono inserite al terzo posto della scala dello yoga, e solo al 4 posto viene poi inserito il Pranayama. Questo perchè se il corpo è rigido, instabile e dolorante, il respiro va da se che non può essere profondo e in un flusso costante. Pertanto gli asana sono il mezzo che conduce al Raja yoga, ma non sono il fine della pratica.
Col tempo, le asana dovrebbero essere abbandonate poiché soltanto il Pranayama permette di raggiungere i gradi più alti della pratica, sfociando nella meditazione (il Dhyana Yoga, nonché la fusione col divino), per poi sfociare nell’estasi cosmica del Samadhi. Ogni momento è buono per ricordare sempre che lo yoga, come afferma Patanjali (e non solo) non è una posizione del corpo, ma bensì UNO STATO DELLA MENTE, che può avvenire esclusivamente dal Pranayama.