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Come praticante credo che non sia possibile parlare di āsana senza collegarli alle altre tecniche psicofisiche che con loro interagiscono: prānạyāma, mudrā, bandha, pratyāhāra e dhāraṇā. Lo Yoga è, o dovrebbe essere, un sistema unico nel quale gli aṇga, le parti o tecniche, devono interagire in modo perfetto se si vuol far scaturire lo stato chiamato Samādhi, ma in genere si pratica Yoga in maniera tra virgolette “parziale”, dando maggior rilevanza, talvolta all’aspetto ginnico, altre alle tecniche di respirazione, altre ancora alla visualizzazione e alla meditazione.

Il fine dello Yoga è l’integrazione delle diverse modalità espressive dell’essere umano – Mente, Parola, Corpo – ottenibile grazie all’utilizzazione simultanea di tutti gli strumenti che l’antica Arte dell’Essere Umano indiana ci mette a disposizione. Questa premessa è fondamentale quando parliamo di āsana: non dovremmo mai perdere di vista che si tratta di una parte della  pratica, di uno degli ingranaggi di questo meraviglioso e complesso meccanismo chiamato Yoga.

La pratica delle posture fisiche è come la scrittura di una melodia, dove, in luogo dello spartito, utilizziamo il nostro corpo:

  • Le note sono gli āsana;
  • Il Tempo – adagio, moderato ecc. – è rappresentato dal prāṇāyāma;
  • Il Ritmo – 3/4, 4/4 ecc. – è scandito dalle mudrā e dai bandha;
  • Il “rasa”, il sapore del brano sarà dhāraṇā.

Infine, quando la pratica è “corretta”, ovvero quando finalmente “eseguiamo la melodia”, i sensi si fanno pubblico e lo yogi diviene, insieme, attore (musico…) e spettatore, realizzando, di fatto, gli “insegnamenti di Śiva”:

Śiva [l’atman, il Sé] è il danzatore.
L’anima individuale [antarātmā]è il palcoscenico.
I sensi sono gli spettatori.
(Vasugupta, Śiva Sūtra III, 9-11) 1

Nella mia esperienza di formatrice di insegnanti mi sono fatto l’idea che molti praticanti non raggiungano i risultati sperati a causa della tendenza a specializzarsi in un determinato settore dello Yoga o meglio a sviluppare esclusivamente, o quasi, le abilità innate – o ciò che, per cultura o convinzione religiosa, è creduto più importante – a discapito degli altri “ingranaggi del meccanismo Yoga”.

Intendiamoci: non è che sia un errore trasformare in abilità le predisposizioni naturali, anzi, è più che auspicabile che un praticante conosca i propri talenti e i propri limiti, ma nel nostro ambiente accade spesso che una particolare abilità in uno specifico settore conduca alla convinzione – spesso non dichiarata per la paura di mostrare tendenze “egotiche” – di aver  raggiunto un alto livello di evoluzione spirituale, una qualche realizzazione e addirittura l’illuminazione.

Può essere che la maggior parte dei numerosi falsi maestri spirituali e pseudo guru della crescita personale che impazzano sul web promettendo la felicità eterna e la soddisfazione permanente, sia caduta in questo errore: coltivare solo uno – o alcuni – degli “aṅga2 dello Yoga, a discapito degli altri, e, una volta ottenuti dei risultati in una specifica pratica, credere
di aver raggiunto la maestria nello Yoga. Si tratta di un qualcosa di simile alla cosiddetta “fase del pavone” 3, un fenomeno contro il quale gli alchimisti e gli esoteristi mettevano in guardia gli adepti già durante il Rinascimento, che consisteva nell’illusione della realizzazione alimentata dalla suggestione e dallo scarso discernimento.

Se, ad esempio, si è particolarmente portati per l’interiorizzazione e la concentrazione mentale si avrà la tendenza a impegnarsi sempre di più nelle pratiche meditative fino ad arrivare a considerare le pratiche fisiche inutili o, in casi estremi, a riconoscere nel corpo un ostacolo alla pratica.
Se, al contrario si ha un talento innato per le pratiche fisiche e Madre Natura ci ha dotato di elasticità muscolare e coordinazione motoria ci specializzeremo sempre più nella pratica di  āsana e vinyāsa fino ad arrivare, in alcuni casi, alla ricerca ossessiva di posture e sequenze sempre più complesse e spettacolari.
In entrambi i casi non avrò nessuna possibilità di comprendere appieno il valore e il significato dello Haṭhayoga 4.
Più il tempo passa e più mi convinco che il “bindu” si può raggiungere solo e solamente attraverso uno sviluppo armonioso di noi stessi.

Cosa intendo per “bindu”?

Questa parola vuol dire “punto” ed è utilizzata (come spesso accade in sanscrito) per descrivere significati diversi: il bindu o bindi è un punto rosso che le donne indiane disegnano in  mezzo alle sopracciglia per indicare che sono sposate, o che gli Śakta disegnano sulla loro fronte per distinguersi, tra gli hindu, come devoti dell’energia femminile suprema, la Śakti.
Il bindu è anche una parte del simbolo del mantra OM ॐ, e cioè quel punto sopra la mezzaluna che sovrasta le tre curve della “sillaba sacra” e simboleggia, nell’interpretazione tantrica, la Devī in unione con Sadāśiva 5.

Nello Śrī Yantra il triangolo centrale (con il vertice posto verso il basso rappresentando la Śakti) contiene un bindu, che rappresenta l’unione di Śiva e Śakti, principi maschile e femminile, sul monte Meru, unione dalla quale nasce la Manifestazione. Il bindu, onnipresente nell’arte e nella cultura indiana, secondo me è una sādhanā – letteralmente, mezzo per ottenere  qualcosa, addestramento – un modo per imparare a cercare – e trovare – il punto di incontro di ogni cosa, sciogliere i nodi che ci impediscono di vivere pienamente e in maniera integrata i tre piani dell’esistenza: il piano di veglia (viśva विश्ि), il piano di sogno (taijasa र्ैजस)e quello di sonno profondo (prajña प्रज्ञ).

Il primo piano è legato a ciò che siamo nel mondo, la nostra espressione personale, psicofisica ed emozionale, ciò che rivelano le nostre azioni quotidiane.
Il piano di sogno riguarda le energie sottili, ovvero come l’energia primordiale che tutto permea (Kuṇḍalinī), si manifesta nelle sue differenti forme dentro e fuori dall’essere umano.
Il terzo, il piano di sonno profondo equivale alla meditazione senza scopo e senza schemi, intesa come Dhyāna, l’immersione nella sorgente rigenerante.

L’integrazione dei tre piani è il fine di ciò io definisco la “sādhanā del bindu” e la pratica dello Yoga è lo strumento di questo addestramento, anzi una “cassetta” degli attrezzi: praticando Yoga possiamo imparare ad arrivare al “punto d’incontro” di ogni cosa. Per esempio, gli āsana sono posture che si devono mantenere senza tensione: esiste quindi per ogni persona e per ogni momento un “punto di equilibrio” nel quale l’āsana è realizzativo, che presuppone una presenza nello stesso tempo attiva e rilassata, né al di qua né al di là delle capacità del  praticante.

Realizzando “il giusto tono muscolare”, “la “giusta tensione” negli āsana, gli altri aṅgaPrāṇasaṃrodha, Pratyāhāra, Dhāraṇā, Dhyāna, Samādhi – si integrano automaticamente nella pratica fisica che va ad assumere, così, una valenza “operativa”: la respirazione diventa il veicolo dei Vayu, trasportando l’energia là dove deve arrivare; la mente svolge il suo prezioso compito di “auriga” dei sensi e le percezioni si trasformano in porte di accesso a nuove dimensioni (pratyāhāra).

In questa prospettiva la pratica degli āsana è una ricerca costante di equilibrio, ricerca che diviene il leitmotiv della vita stessa dello yogi, che dovrebbe cercare di applicare la “filosofia del bindu” in ogni momento della sua esistenza per arrivare all’armonizzazione degli opposti.
Per fare un esempio banale prendiamo il caso delle opinioni contrastanti: è normale, per noi, vedere persone, comunità, popoli e nazioni, divisi dalle proprie opinioni, dalle proprie ragioni o da principi e credenze molto soggettivi.Prendiamo ad esempio la parabola buddhista dei ciechi e dell’elefante: colui che tocca la proboscide penserà di avere a che fare con un serpente, un altro, che tocca la zampa, penserà al tronco di un albero ecc. in una scala da 0 a 10 – dove 0 è la convinzione che l’elefante sia un serpente e 10 quella che sia il tronco d’albero – il bindu, ovvero la possibilità che ognuno abbia una visione parziale della verità e che la verità – l’elefante – possa emergere solo dalla comprensione dei reciproci punti di vista, sarà il 5.

La ricerca del punto d’incontro – il bindu – ci fa realizzare che ciò che è considerato opposto è in realtà complementare e che senza differenze non ci sarebbero né possibilità di conoscenza né, in sostanza, la consapevolezza di esistere.
L’applicazione della “filosofia del bindu” alla vita quotidiana non è impresa facile: talvolta pare impossibile arrivare a sciogliere le tensioni che separano gli opposti, ma se riuscissimo a perseverare nella ricerca di un punto di incontro in ogni campo sapremmo senza nessun dubbio come arrivare al nucleo centrale , all’essenza, alla verità assoluta, al di là della quale può esserci solo silenzio, infinito, eternità.

Il bindu è come una linea di demarcazione tra gli stati di veglia, di sogno e di sonno e la nostra esistenza, in fin dei conti, non è altro che un continuo varcare il confine tra un piano di coscienza e l’altro. Quando ne siamo coscienti angosce e dubbi si risolvono e arriviamo a poter affermare “io sono”: io sono colui che medita e sono colui che fa la spesa al mercato, sono colui che ride e sono colui che si dispera, perché semplicemente io sono.; come l’elefante del racconto buddhista che è al contempo ventaglio (l’orecchio), lancia (zanna), tronco (zampa), corda (coda), serpente (proboscide) e muro (il fianco). Io sono è una forma di espressione dell’energia della manifestazione, in qualsiasi dimensione dell’esistenza, pura coscienza che si gode lo spettacolo della vita in tutte le sue forme.

Śiva è il danzatore.
Il Corpo è il palcoscenico.
I sensi sono gli spettatori.
ॐ शान्द्न्र्िः

Laura Gabriella Nalin

NOTE:

1
Originale:
Nartaka ātmā नर्तक आत्मा॥
Raṅgo’ntarātmā रङ्गोऽन्र्रात्मा
Prekṣakāṇīndriyāṇi प्रेक्षकाणीन्द्न्ियाणण॥

2
Con il termine aṅga si indicano specificamente i sei “arti”, ovvero le sei parti in cui viene diviso il corpo umano nella danza tradizionale ovvero:
1. Testa;
2. Mani;
3. Torace (seno);
4. Fianchi;
5. Vita;
6. Piedi.

Per consuetudine il termine aṅga si applica, poi, a tutte le discipline artistiche indiane – la dizione ad esempi è suddivisa in sei elementi denominati viccheda, arpaṇa, visarga, anubandha, dīpana, praśamana – compreso lo Haṭhayoga che in epoca precoloniale veniva definito, appunto, Ṣaḍaṅgayoga o “Yoga dei sei arti”.
I sei aṅga tradizionali sono:
1. Āsana,
2. Prāṇasaṃrodha;
3. Pratyāhāra;
4. Dhāraṇā;
5. Dhyāna;
6. Samādhi.

3
La “Grande Opera” dell’Alchimista si sviluppa attraverso cinque fasi indicate con nomi di animali:
1. Il corvo;
2. Il cigno;
3. Il basilisco;
4. Il pellicano;
5. La fenice.

Il Corvo era la cosiddetta Opera al Nero o Nigredo; il Cigno rappresenta l’Opera al Bianco o Albedo e la Fenice rappresenta, infine, l’Opera al Rosso o Rubedo. La fase del Pavone (o della “Coda del pavone”) interveniva solitamente prima o dopo la fase del Cigno, ma poteva ripetersi in ogni momento della Grande Opera; e consisteva in una serie di alterazioni percettive che alimentavano l’illusione di aver raggiunto un alto grado di coscienza o di aver sviluppato dei poteri paranormali.

4
Si noterà che uso il termine Yoga come sinonimo di Haṭhayoga; con questo non intendo certo negare l’esistenza, ad esempio, di uno Yoga puramente speculativo, ma, semplicemente, affermare che lo Yoga che pratico e insegno da decenni, ovvero le pratiche che riguardano l’energia chiamata Kuṇḍalinī e quindi i cakra, le nāḍī ecc. è essenzialmente Haṭhayoga, disciplina che per lungo tempo è stata considerata “non ortodossa” ovvero non in linea con gli insegnamenti vedici; la parola kuṇḍalinī compare nella letteratura sanscrita solo in epoca moderna e le tecniche psicofisiche che oggi definiamo Yoga furono assorbite nel sistema filosofico brahmanico solo in epoca relativamente moderna, con l’introduzione della Yoga Kuṇdạlinī Upaniṣad e delle altre diciannove “Yoga Upaniṣad” tra le 108 Upaniṣad considerate “tradizionali”, ovvero facenti parte dell’ortodossia brahmanica. La data di composizione delle Yoga Upaniṣad, è incerta, ma secondo James Mallison alcune di esse, che descrivono tecniche e concetti estranei agli insegnamenti vedici, sarebbero state riviste o addirittura riscritte tra il XVIII e il XIX secolo, nel tentativo, forse, di adattare lo Haṭhayoga – all’epoca assai popolare tra gli appartenenti alle classi sociali meno elevate – ai principi del sapere brahmanico.
Vedi: Paolo Proietti, Laura Nalin, AMṚTA: Gli Insegnamenti di Gorakhnāth sullo Haṭhayoga. Traduzione e commento della Gorakṣa Saṃhitā (Pūrva Śatakam).

5
Il simbolo grafico della sillaba ॐ – tecnicamente una “ū” scritta in devanāgarī corsivo – nel tantrismo acquista la valenza di uno yantra, ed ognuno dei tratti che lo compongono va a rappresentare diverse divinità ed energie; prendendo come riferimento l’immagine della sillaba che ho inserito nel testo, avremo, per esempio:

  1. Kriyāśakti, Brahma e sṛṣṭi (creazione) corrispondono alla a (अ), rappresentata, graficamente, dalla curva inferiore (1)della sillaba sacra ॐ;
  2. Jñānaśakti, Viṣṇu e sthiti (mantenimento) corrispondono alla u (उ) rappresentata graficamente dalla linea centrale (2) della sillaba ॐ;
  3. Icchāśakti, Rudra e saṃhāra, (dissoluzione) corrispondono alla m (म)् rappresentata graficamente dalla curva superiore (3) della sillaba ॐ.
    La mezzaluna ed il punto – candrabindu (चन्िबिन्द)ु , che nella vocalizzazione dell’ॐ indicano la nasalizzazione e sono considerate parte integrante della lettera m (म),् dal punto di vista grafico, vanno considerati due simboli a sé stanti:
  4. Candra, la mezzaluna (4) tradizionalmente emblema di Śiva, viene definita nāda (नाद)5 e corrisponde alla forma maschile detta Īśvara o Īśāna, a Ādiśakti (Parākuṇḍalinī) e a tirōdhāna (velamento);
  5. Il punto (5) bindu (बिन्द,ु ), simboleggia l’origine di tutti i suoni e, quindi, della manifestazione, il luogo dell’infinita potenzialità e corrisponde a Parāśakti, la śakti suprema, a Sadāśiva e ad anugraha (grazia).

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