Se c’è una pratica Yoga che più di ogni altra sta vivendo un momento di grande trasformazione negli ultimi anni, questa è sicuramente l’Ashtanga Yoga.
A 13 anni di distanza dalla scomparsa di K. Pattabhi Jois, il maestro che più di ogni altro ha avuto il merito di diffondere l’Ashtanga Yoga nel mondo, sono moltissimi i cambiamenti che hanno toccato la pratica e gli insegnanti che la trasmettono.
Ad uno sguardo superficiale, poco sembra mutato. A portare avanti la tradizione, oggi a Mysore troviamo Sharath Rangaswami Jois, nipote di Pattabhi Jois e da lui direttamente investito della responsabilità di continuare il lavoro di trasmissione fedele del metodo. A latere, anche Saraswathi Jois (figlia) e Sharmila (sorella gemella di Sharath) continuano il lavoro del maestro in quella che oggi è conosciuta come la “old shala”.
Sharath, per rispondere alle crescenti richieste provenienti dall’Occidente, ha trasferito la sua scuola in un centro molto più grande, in grado di ospitare un numero sempre maggiore di studenti attratti da questa pratica che continua ad incuriosire non solo i praticanti di Yoga, ma anche gli accademici (è noto infatti che la SOAS della University of London ha dedicato quasi un decennio a studiare le origini dell’Ashtanga Yoga).
Eppure, molto è cambiato. Tralasciando gli echi del “me-too” che hanno investito, insieme a moltissimi altri Guru, anche Pattabhi Jois, è indubbio che dalla sua morte siano accadute molte cose. I praticanti hanno cominciato a mettere in discussione la pratica, il modo di insegnarla, le sue radici, distaccandosi dalla leggenda tramandata dall’anziano Guru e risvegliando (finalmente) il proprio senso critico. Come accade in ogni scienza e forma d’arte, l’evoluzione è un processo inarrestabile, e nasce proprio dalla sana abitudine dell’essere umano di farsi domande, di rispondere ai dubbi, di crescere intellettualmente e spiritualmente. E d’altro canto lo stesso Pattabhi Jois aveva chiamato la sua Shala “AYRI”, Ashtanga Yoga Research Institute, dove la parola “Research” va forse sottolineata più di quanto sia stato fatto finora.
Il lavoro di molti accademici (tra cui Mark Singleton, autore del tanto discusso quanto apprezzabile libro del 2010 “Yoga Body”) ha fatto luce sulle influenze subite da T. Krishnamacharya (il maestro a cui Pattabhi Jois ascrive la redazione delle Serie dell’Ashtanga Yoga per come le conosciamo) nel suo impiego presso il Jangmohan Palace del Maharaja di Mysore, dove a partire dal 1933 l’eminente insegnante iniziò a creare quella che sarebbe diventata “la madre” di tutte le pratiche di Yoga dinamico che oggi conosciamo.L’imponente lavoro della SOAS ( e in particolare di Mark Singleton, James Mallinson e Daniela Bevilacqua) ha rivelato l’esistenza di testi pre-medievali (come l’Hatha Bhyasa Paddathi) che, forse, avvalorano la leggenda dello Yoga Kurunta; ma ha anche messo in luce come Krishnamacharya fosse influenzato sia da altre pratiche tradizionali indiane (come una particolare forma di lotta, nonché la tradizione di cultura fisica portata avanti da altri maestri nello stesso palazzo) che da forme di ginnastica occidentale importate dai colonizzatori britannici.
Il lavoro degli accademici inglesi ha contribuito al nascere di discussioni molto prolifiche nei gruppi social dedicati a questa pratica, discussioni che hanno visto l’intervento (e la conseguente presa di posizione) di molti senior teachers di spicco, come Eddie Stern, Guy Donahaye, David Garrigues, John Scott, Mark Robberds e molti altri.
Poiché l’Ashtanga Yoga è, innegabilmente, un metodo molto asana-centrico, era inevitabile che queste discussioni avrebbero portato ad una sorta di “scissione” nel modo di trasmettere la pratica: in breve, tra chi ha deciso di continuare a farlo nel modo più tradizionale (ovvero con poca attenzione allo sviluppo di una maggiore consapevolezza anatomica e di una maggiore responsabilità individuale) e chi invece ha scelto di studiare in modo più approfondito metodi e integrazioni che migliorino la capacità del praticante di evolversi in sicurezza verso le posture e le serie più avanzate, e soprattutto di riconoscere autonomamente i propri limiti (non solo fisici, ma anche quelli dettati dal proprio stile di vita).
Non che questa tendenza sia apparsa “out of the blue”: anche quando Pattabhi Jois era in vita, diversi insegnanti avevano iniziato a mettere in discussione le “debolezze” del metodo di insegnamento: tra questi, Gregor Maehle, Graeme Northfield e lo stesso Mark Robberds. La differenza, forse, sta nel fatto che fino ad un decennio fa queste proposte venivano viste come vere e proprie eresie, aspramente criticate dall’”Ashtanga Police”, ovvero il gruppo di “fondamentalisti” difensori a tutti i costi della vecchia scuola. Alzi la mano chi non ha mai sorriso davanti a questo fantomatico squadrone di leoni da tastiera, pronti a definire “incorrect method” qualsiasi alterazione al modus operandi dell’insegnante modello.
Oggi però le posizioni si sono certamente ammorbidite, e nell’Ashtanga Yoga post-lineage vediamo maestri indiscussi come Eddie Stern insegnare, nella shala di New York, sia le sequenze tradizionali che formule più brevi o modificate, insieme ad altre forme di lavoro sul sistema nervoso. David Garrigues propone anche online corsi sugli “short forms”, ovvero sequenze più brevi (lavoro in parte già tracciato da David Williams decenni fa, e in modo meno noto da Godfrey Devereaux), o mix tra prima e seconda serie, di volta in volta centrati su inarcamenti, flessioni in avanti, apertura delle anche etc. etc. Ma più di ogni altra cosa, vediamo quasi tutti gli insegnanti prendere in mano libri di anatomia, studiare gli aggiustamenti manuali da un punto di vista più informato, preoccuparsi della personalizzazione della pratica in base alle esigenze e alle limitazioni individuali. E tutto questo, senza essere tacciati di eresia, appropriazione culturale o alto tradimento.
L’Ashtanga Yoga si sta dunque evolvendo, senza perdere nulla del suo fascino originario, in modo pacifico e responsabile. Forse seguendo le orme esistenziali dello stesso Krishnamacharya, che dalla pratica “standardizzata” impatita alla gioventù del Jangmohan Palace, arrivò alla personalizzazione della pratica proposta nel suo studio di Madras (oggi Chennai). E’ possibile quindi oggi continuare ad insegnare e praticare Ashtanga Yoga, rimanendo fedeli al metodo?
A mio modesto parere, sì. Per quanto sia impossibile essere certi di come Krishnamacharya insegnasse negli anni ’30 del secolo scorso, è sensato immaginare che la sua mente brillante fosse aperta ad innovazioni e personalizzazioni. E’ innegabile (e questo lo sappiamo perché i senior teachers di Pattabhi Jois sono ancora vivi, vegeti e praticanti) che egli stesso, soprattutto all’inizio, quando erano pochissimi gli occidentali che viaggiavano fino a Mysore, insegnasse in modo almeno in parte diverso ad ogni praticante, rendendo la pratica via via più standardizzata col numero crescente di visitatori. E’ probabile che le sequenze fisse fossero “coreografie dimostrative”, utilizzate dai giovani del palazzo di Mysore, sotto la guida esperta di Krishnamacharya, per attirare maggiore interesse verso lo Yoga, che sotto la colonizzazione britannica stava perdendo smalto. E se così è, siamo autorizzati, nella nostra pratica quotidiana, a praticare con maggiore indulgenza, senza cercare ogni giorno la massima performance, e soprattutto individuando le nostre aree di debolezza, lavorandoci anche con esercizi di preparazione, senza nulla togliere alla bellezza delle sequenze, e al loro eccezionale valore dimostrativo e meditativo.
Possiamo continuare ad essere immensamente grati a Krishnamacharya per la sua dedizione e il suo spirito di ricerca. Alla famiglia Jois, per la tenacia con cui continua a testimoniare la storia dell’Ashtanga Yoga. E a tutti gli insegnanti che, nel corso dei decenni, si sono posti domande, hanno cercato risposte, e continuano a farlo.
Interessante. Mi fa piacere leggere ciò, sulla diffusione dell’ashtanga Yoga, da parte tua, tramite la famiglia Jois e non solo Sharat, motivo che ti ha spinto tempo fa a bloccare il mio profilo. Sarebbe interessante sapere quali sono le dichiarazioni con cui asserisci che G. Maehe, Northfield e M. Robberds affermino e mettino in discussione le “debolezze” del metodo di Pattabhi Jois. Per quanto riguarda le “sequenze brevi per le pratiche”, sono datate già nel 1999 da David Swenson nel suo libro storico “ashtanga yoga The Practice Manual”… aspirazione per tutti i praticanti ed insegnanti come me ed altri. Quindi non è una novità. Spero tu pubblicherai il mio commento in modo da completare la conoscenza per tutti quanti. Cristina De Marchis
Ciao Cristina, che bello leggere un commento al mio articolo.
Il metodo non presenta debolezze – non mi sembra di aver scritto questo – ma certo molti hanno necessità di modificarlo in parte, in alcuni momenti della loro vita.
David Swenson come avrai ben letto è infatti il primo che cito in merito agli short forms, Graeme – con cui ho studiato personalmente – modifica da anni ormai la pratica, ti consiglio un seminario con lui, è affascinante.
Mark ha espresso molte volte nei suoi post nel corso degli anni le sue perplessità e i suoi dubbi in merito alla pratica.
Spero la risposta sia esaustiva.
A presto e grazie ancora per il tuo contributo, anche se non ho capito bene a cosa miravi poiché mi sembra che diciamo le stesse cose 🙂
PS – non so da dove tu evinca la mia mancanza di rispetto per la famiglia Jois, che ho nel cuore da sempre. Sono stata a Mysore, e ne ho sempre parlato benissimo. Forse ti confondi con qualcun altro…