Yoga secondo noi è “danzare la vita”.
Questa meravigliosa “Arte dell’Essere Umano” ci ha affascinato sin da ragazzini e piano piano ha permeato completamente le nostre esistenze. Oggi ci dedichiamo esclusivamente alla Formazione di Insegnanti e alla ricerca, ma la nostra esistenza è ancora scandita dagli āsana, dalle sedute di meditazione e, soprattutto, dalla volontà di coltivare quell’attitudine alla gioia che per i maestri antichi – come Patañjāli per citarne uno tra i tanti1 – è parte integrante e fondamentale della pratica. Ai nostri allievi parliamo sempre di Yoga, senza suffissi e prefissi, e questo, soprattutto agli inizi del percorso formativo, li lascia un po’ interdetti. In effetti nel corso della nostra ultradecennale esperienza – abbiamo rispettivamente 58 e 62 anni e Paolo, ad esempio, ha cominciato a praticare nel 1973 – abbiamo assistito al fiorire di scuole ed etichette e, soprattutto, ad una progressiva modificazione delle tecniche, della nomenclatura e, addirittura, ci pare, della maniera stessa di intendere lo Yoga. Quando abbiamo iniziato a praticare, negli anni ’70, difficilmente si parlava di stili, scuole ed etichette: facevamo Yoga – semplicemente Yoga – che, per noi, era una disciplina psicofisica basata su un numero limitato di “tecniche di purificazione” – definite ṣaṭkriyā, ṣaṭkarma o semplicemente kriyā – brevi sequenze, fondate su un numero limitatissimo di āsana, e, soprattutto, su una intensa pratica di meditazione.
Meditare per noi voleva dire mettersi a gambe incrociate o in ginocchio – con la schiena allungata, raccomandavano gli istruttori, quasi seguisse l’impulso del sincipite a volare nel cielo – aspettando il vuoto mentale e/o particolari effetti luminosi e sonori. A volte meditavamo da soli, davanti a un albero o contemplando il tramonto sul mare; altre venivamo guidati dai praticanti più esperti in visualizzazioni di particolari simboli – yantra – ed esercizi di controllo della respirazione; altre ancora cercavamo di ottenere lo stato meditativo grazie alla recitazione mentale o “borbottata”, di mantra o di semplici sillabe, come Ram, Lam e, ovviamente, Om e So’ham. Rispetto all’incredibile varietà di tecniche posturali e alla complessità delle teorie filosofiche che vengono proposte oggi, si trattava di una pratica piuttosto elementare.
Le posizioni – gli āsana – che studiavamo e praticavamo all’epoca erano non più di una decina, tutte indicate con i loro nomi in italiano (nessuno di noi conosceva il sanscrito): la posizione del “loto” (con le sue varianti “mezzo loto”, “loto legato” ecc.); la posizione in ginocchio, la posizione del cobra; la posizione della locusta, con il mento e il torace appoggiati per terra e le gambe sollevate; la posizione dell’arco rovesciato, la posizione della spaccata – sia sagittale, sia frontale sia in equilibrio sugli ischi – preceduta e seguita spesso dagli allungamenti che oggi chiamiamo paśimottānāsana e jānu śirṣāsana; la posizione del ponte, la verticale, definizione nella quale facevamo rientrare tutte le varianti della verticale sulla testa, la verticale sui gomiti (lo “Scorpione”) e la verticale sulle braccia che facevamo precedere o seguire spesso dalla postura dell’aratro – con le gambe tese dietro la testa, e dalla candela; le posizioni in torsione, tra cui quella che oggi chiamiamo “matsyendrāsana” e la posizione in piedi, che assumevamo passando per la “pinza in piedi – “uttanāsana” – e trasformavamo in posizioni di equilibrio su un piede, di solito la postura dell’albero, che consideravamo una specie di test, dato che eravamo convinti che una buona pratica aumentasse l’equilibrio. Certo, poi c’erano le varianti, più o meno complesse che ognuno di noi provava a seconda delle proprie capacità fisiche, ma in genere le posture erano queste, non più di una decina.
Dopo la pratica fisica – basata di solito su tre o quattro delle dieci posture fondamentali – ci sdraiavamo nella posizione del cadavere e dopo cinque, dieci minuti di rilassamento profondo praticavamo “lo Yoga seduto”, ovvero meditavamo cercando di sospendere il respiro e di mantenere la lingua sull’arco palatale o – per i più esperti – a contatto con il palato molle, aspettando l’insorgere di “effetti luminosi” e, soprattutto, del “suono interiore”, la cui percezione, secondo i miei istruttori, era l’avvisaglia della discesa nel palato di un liquido dolce, l’amṛta. Si trattava di una pratica elementare – alcuni potrebbero giudicarla un po’ naïve – che tuttavia, per noi risultava – risulta…- assai efficace e, dettaglio secondo noi non trascurabile, in linea e, pare, assolutamente in linea con i testi classici dello haṭḥayoga. Già lo haṭḥayoga… facciamo una piccola parentesi: quando si parla di āsana, bandha, mudrā, cakra, kuṇḍalinī…si parla di pratiche psicofisiche, comuni all’ambito buddhista e hindu, sviluppate e divulgate da Matsyendranātha, Gorakṣa ed altri maestri tantrici medioevali; ciò non significa che non esistano altre discipline definite Yoga che hanno relativamente poco a che vedere con lo haṭḥayoga o lo considerino solo come una specie di preparazione ad altre pratiche, ma in genere se uno si mette a testa in giù, assume la postura del “Cobra”, trattiene il respiro con le gambe annodate (in padmāsana) o cerca di infilare la lingua nel palato molle (kechari mudrā), fino a prova contraria segue gli insegnamenti degli haṭḥayogin medioevali.
Ma torniamo ai testi: Come dicevamo le nostre pratiche di 40 o 50 anni fa – e ciò che cerchiamo di insegnare oggi ai nostri allievi – ci sembrano in linea con ciò che è scritto in libri come Gorakṣa Paddhati, Amṛtasiddhi, Khecarīvidyā, Haṭha Ratnavali, Haṭhayogapradīpikā, Gheraṇḍa Samhitā, Jogapradīpikā ecc. Questo non significa assolutamente che siamo portatori di una qualche Tradizione con la T maiuscola, semplicemente noi – e i maestri che ci hanno istruito – intendiamo per Yoga lo haṭḥayoga, per cui, ad esempio, i termini che usiamo e la descrizione che facciamo di determinate esperienze dovrebbero essere chiari e comprensibili – oggi come 50 anni fa – per tutti coloro che praticano e studiano haṭḥayoga (e viceversa). Oggi, parlando con insegnanti e praticanti di altre scuole ci capita invece, non di rado, di non capire certe affermazione o di avere l’impressione che termini e concetti vengano usati con significati affatto diversi. Secondo noi questa sorprendente tendenza all’incomprensione è legata al fenomeno dello “Yoga dei Suffissi e dei Prefissi” nato e cresciuto per esigenze di Mercato. Intendiamoci: noi non vediamo affatto il Mercato come un qualcosa di negativo e, in qualche modo, cerchiamo di adeguarci alle sue leggi, ma ci sembra giusto sottolineare la differenza tra il moderno “Yoga dei Suffissi e dei Prefissi” e lo Yoga come noi lo intendevamo fino a non molti anni fa. Quello che sta accadendo, e che è accaduto, con la parola Yoga è, secondo noi esattamente ciò che accadeva negli anni ’70 con la parola “Zen”. Era un termine di moda e non c’era palestra, Circolo o Associazione Culturale che non proponesse qualche disciplina chiamata ZEN: “Ginnastica ZEN”, “Kung Fu ZEN”, “Meditazione ZEN”, “danza ZEN”, “ZEN e l’Arte della Manutenzione della Motocicletta” e, ovviamente, “Yoga ZEN”.
Oggi è il turno di YOGA e così si aprono corsi di “YOGA VOLANTE”, “MORBIDO”, “DURO”, “FITNESS”, “ORMONALE”, “FACCIALE”, “EGIZIO” e così via. Spesso si tratta di discipline nuove per modo di dire, nuovi nomi di tecniche antiche riconducibili allo “YOGA YOGA”, ma a volte siamo invece di fronte a tecniche psicofisiche che poco hanno a che vedere con lo Yoga di Patañjāli o di Gorakṣa. Tecniche psicofisiche contemporanee i cui creatori e praticanti – non sempre, ma spesso – se parli loro dei 6 Darśana o dei 25 principi del Saṃkhyā, ti guardano come se parlassi arabo. È un bene? È un male? Secondo noi è semplicemente un fatto e bisogna anche considerare che non è che a sapere a memoria lo Haṭhayogapradīpikā si diventa più, bravi più sani o più belli. Se ieri lo Yoga era soprattutto lo haṭḥayoga medioevale, oggi è quello dei “suffissi e dei prefissi”, uno Yoga che spesso non ha niente a che vedere con le pratiche originarie. Probabilmente in futuro ci sarà un qualche genere di adattamento, così come è accaduto con lo Zen degli anni ’70, e il Mercato sceglierà nuove parole chiave. A noi, che, è bene ripeterlo, non vediamo in maniera negativa le scelte fatte per ragioni commerciali, piacerebbe che lo Yoga di domani seguisse un doppio binario: da un lato lo sviluppo di moderne tecniche del benessere – chiamiamole pure Yoga, tanto in fondo è una parola come le altre – dall’altro un impulso alla ricerca delle radici di quella meravigliosa “Arte dell’Essere Umano” cui noi due – e molti altri, hanno dedicato la vita; un impulso che potrebbe essere dato sia dai singoli insegnanti e ricercatori sia da riviste come Yoga Magazine, già oggi luogo in cui, con libertà, ognuno di noi può esprimere le proprie opinioni e condividere le proprie esperienze e convinzioni.
1 Y.S. 1.33: मैत्री करुणा मुदितोपेक्षाणांसुखदुःख पुण्यापुण्यविषयाणां भावनातः चित्तप्रसादनम् ॥३३॥
maitrī karuṇā mudito-pekṣāṇāṁ-sukha-duḥkha puṇya-apuṇya viṣayāṇāṁ bhāvanātaḥ citta-prasādanam ॥33॥
“La purificazione della mente si realizza coltivando la cordialità, la compassione, la gioia e l’indifferenza nei confronti delle esperienze che provocano piacere o dolore, successo o fallimento”.