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La bellezza e la ricchezza inestimabili dello Yoga stanno nel suo essere arte e scienza a 360°, in quanto cammino sapienziale e scienza unitiva: gli otto rami dello Yoga tradizionale, pertanto, così come trasmessi ed esplicitati magistralmente da Maharishi Patañjali, sono il compendio (o, uno dei compendi) dello Yoga, la sua essenza. Attenzione: gli otto -anga non sono prerogativa di uno stile specifico di Yoga piuttosto che di un altro, ma di tutti gli Yoga: gli otto rami, stadi, o gradini, delineano un percorso di conoscenza, evoluzione, studio e pratica completo o, meglio, che prova ad essere tale. Gli otto rami dello yoga rappresentano, difatti, un percorso ideale e al tempo stesso concreto, adatto a tutti i praticanti, quale che sia il loro livello e la loro condizione, di partenza e in itinere, purché vi siano seria motivazione e ricerca sincera.

Negli ultimi anni, per compensare la confusione sorta anche dal fatto che lo yoga sia divenuto fenomeno di massa, è stato giustamente ribadito che gli asana siano solo la punta dell’iceberg. Ma non è cosa affatto scontata che vi sia davvero una tale consapevolezza, nei fatti, e non solo a parole. Se oltre 25 anni fa, quando conobbi lo yoga, era normale che le persone, anche i neofiti, fossero coscienti di avvicinarsi a una sconfinata disciplina di natura soprattutto spirituale e filosofica (compresi gli approcci impegnativi anche a livello corporeo), da alcuni anni non è più così. Non è una critica, questa, ma una constatazione, frutto dell’aver personalmente testimoniato come e quanto la percezione dello yoga e le motivazioni siano mutate – in alcuni anche se non in tutti gli ambienti – negli ultimi anni e decenni. Non è tra l’altro scopo del presente articolo soffermarsi su questi cambiamenti, pur essendo necessaria tale premessa.

Nella sādhanā intesa come via di completezza, raffinata e insieme squisitamente democratica, amo ritornare e riandare – più e più volte, e soprattutto negli ultimi anni, sia per me stessa che nell’insegnamento – ai suoi pilastri, alla fonte: gli yama e i niyama, che delineano rispettivamente la condotta verso gli altri e verso noi stessi. In particolare, ai primissimi due yama, imprescindibili e sempre forieri di insegnamenti preziosi: ahiṃsā e satya.

Gli yama vengono enunciati negli Yoga Sūtra, al libro II.30. Nei secoli, si sono succeduti numerosi commentatori e traduttori, che hanno così aggiunto e arricchito la loro interpretazione agli aforismi di Patañjali, per loro natura concisi, essenziali e completi in sé. Ripercorriamo dunque l’etimologia dei due termini fondanti del comportamento corretto da assumere nei confronti del prossimo e dell’Altro in senso più ampio.

Ahiṃsā deriva dal sanscrito hiṃs: “nuocere, ferire, uccidere”; preceduto dalla –a privativa assume connotati di “nonviolenza, non nuocere, non ferire, non causare dolore o sofferenza, non uccidere”. Alcuni commentatori lo hanno tradotto addirittura con “mansuetudine”, concordando all’unanimità che ahiṃsā, essendo il primo e più importante degli yama, ne influenzi i quattro successivi. Questo primo principio accomuna l’induismo al buddhismo e al jainismo (quest’ultimo più “eccessivo” nell’applicazione), ma a mio parere è presente nel meglio di tutte le tradizioni, religiose e laiche, soprattutto, direi, spirituali, ed è sia orientale che occidentale, quindi universale. Ad esempio diversi comandamenti del Vecchio Testamento sono riconducibili ad ahiṃsā, in maniera esplicita il “non uccidere”. Ma in primis e soprattutto, ahiṃsā è puro yoga: è la radice di questo cammino spirituale e non dogmatico, universale.

Il primo yama non si limita all’astensione dal fare del male, ma si estende alle altre persone, a tutti gli esseri viventi, anche vegetali e all’intero pianeta ed universo. Senza dimenticare sé stessi. Quanto più ampio è il nostro cuore, quanto più vasto il nostro intelletto, quanto più coraggiosa la nostra condotta, tanto più praticheremo ahiṃsā. Coraggiosa, sì: come diceva il Mahatma Gandhi, maestro di ahiṃsā a livello trasversale: «La nonviolenza richiede il più grande coraggio» sottolineando che «non si può praticare la nonviolenza ed essere al contempo un codardo». La nonviolenza, dunque, non è per i deboli, i vili, ma per le persone forti ed audaci, per i ricercatori autentici, per coloro che non pensano solo a sé stessi, ma che sono naturalmente aperti e orientati all’altro, incapaci di indifferenza davanti alle ingiustizie, puri (non puritani) di spirito e di azione.

Come pure il secondo yama, Satya, richiede altrettanto coraggio. Satya significa infatti “veridicità, verità, aderenza al vero” ed è la naturale conseguenza di ahiṃsā. Sat vuol dire “essere, la realtà”, mentre -ya sta per “avanzare, sostenere, sorreggere”. Dunque, Satya, è “l’essere” ma anche il “progredire nella verità”, e ciò indica a mio avviso una simultaneità e contemporaneità tra il divenire e l’essere, presente in tutta la dialettica e l’esperienza dello yoga, mistero e realtà di un cammino che è statico e al contempo dinamico: l’esperienza della Verità, per l’appunto. Qui, nel secondo yama, siamo specificatamente nello stato e insieme nell’evoluzione, attraverso l’abbracciare la verità e la veridicità. Satya è così tutto quel che è vero, onesto, chiaro, corretto. Anche qui, come nel precedente yama, non siamo nel rigido né nel giudicante dogma che premia o ricompensa, ma in uno stato naturale dell’essere. Perché quando viviamo lo yoga in modo autentico, senza competere e senza paragonare (vedi, a questo proposito, soprattutto gli insegnamenti della Bhagavad Gītā), né con gli altri né con noi stessi, allora abbracciamo la nonviolenza e la veridicità.

Ho sempre concepito e vissuto questi due yama come una coppia inscindibile: la vera nonviolenza, difatti, è sincera, cosi come l’aderenza reale al vero richiede nonviolenza. Come ho sempre sentito e poi sempre più vissuto, gli yama non vanno vissuti come prescrizioni rigide: prima di applicarli, bisogna capirli fino in fondo, sentirli, adattarli al proprio livello, alle proprie possibilità, al proprio stato contingente ed esistenziale, al proprio stile di vita. Non serve a nulla, anzi è antiyogico e controproduttivo provare a “capire” con il mero intelletto, o cercare a tutti i costi di essere bravi, buoni, gentili perché così ci viene detto dall’insegnante o perché l’abbiamo letto sui libri. Ahiṃsā e satya, come tutti gli yama e niyama nonché lo yoga tutto, vanno avvicinati, assaporati, metabolizzati, compresi attraverso l’interezza del nostro essere e l’integrazione quanto più genuina, spontanea, piena, nella vita stessa.

Sembra difficile, ma è possibile. Praticando e studiando con dedizione, sincerità, zelo, passione, arriveremo a integrare i meravigliosi insegnamenti dello yoga nella nostra vita, non solo a lezione, ma sempre più spesso e nelle varie circostanze, ognuno con la propria sfumatura e modalità. E allora, davvero, ahiṃsā sarà non più, o almeno, non solo, un dovere, ma un piacere. Per molti ahiṃsā significa abbracciare una dieta vegetariana che, a onor del vero, è più sattvica e consona ad uno stile di vita yogico. Va detto, che i lignaggi tradizionali di yoga concordano che non può esservi ahiṃsa né yoga senza una dieta vegetariana. Personalmente, pur essendo felicemente vegetariana dal 2003, non ho mai preteso di imporre questa scelta, né mi son certo mai per questo sentita “migliore” di altri. Vi sono praticanti sinceri che non si sentono, per varie ragioni, di seguire la dieta vegetariana, oppure che in alcune fasi della loro vita tornano a una dieta mista, e rispetto la loro scelta: anche questo è ahiṃsā. Tuttavia, non si può negare che una dieta vegetariana sana, completa ed equilibrata sia la più consona ad uno stile di vita yogico e che soprattutto sia una modalità alla portata di tutti – anche se non la sola né da sola – per mettere in pratica il primo yama. La nonviolenza è nei pensieri, nelle parole, nelle azioni: un’asserzione che suona famigliare anche a noi occidentali, ma che proviene proprio dal primo commentatore degli Yoga Sutra, Vyāsa. La nonviolenza è nel modo di essere dello yoghin, uno stato mentale. Non è un credo, né un un approdo, poiché forse totalmente non ci si arriva mai, ma è un ideale pratico a cui ispirarsi, a cui abbeverarsi, da perseguire con amorevole pazienza, costanza e osservazione. Possiamo osservarci nell’applicare o meno la nonviolenza anche e a partire dal tappetino: qual’è lo stato d’animo, quali sono le sensazioni, i pensieri, le percezioni che ci attraversano durante la lezione di yoga? Sono armoniosi, gioiosi, belli oppure contrastanti, dispersivi, nocivi, rigidi? Vi è tensione, e se sì, dove? Come ammorbidire tale tensione, attraversarla, rilasciarla, capirla, trasformarla? Oppure, come accettarla, almeno per il momento? Cosa mi sta insegnando? E, terminata la lezione, come pure il ritiro di yoga, il periodo in ashram, il viaggio di India, siamo in grado di portare la continuità del nostro vissuto yogico nel ritorno a casa, in famiglia, o nello stare con noi stessi? Riusciamo a vivere lo yoga sul lavoro, nelle relazioni di amicizia, di conoscenza, nell’interazione con i vicini, con le persone che ci aggradano o con le persone ostili, che crediamo lontane da noi anni luce?

Quanto a Satya, ancora, non significa dire tutto quel che pensiamo con veemenza e aggressività, semplicemente perché pensiamo che sia la verità! Non esiste una verità rigida, assoluta, statica e nessuno ne è tantomeno il depositario. Esiste però “l’aderenza al vero”, per l’appunto. Possiamo avvicinarsi all’obiettività e allenarci a vedere sempre di più chiaramente e nitidamente. Quindi la veridicità, a maggior ragione, è bene sia fondata in ahiṃsā. La Verità a cui tendiamo e che ci adoperiamo a condividere, vivere, trasmettere, è bene sia nonviolenta, altrimenti non è tale. Perché la Verità pura è al di là dell’ego: è uno stato che trascende la nostra personalità, le nostre inclinazioni, le nostre preferenze e le nostre avversioni, legittime (se così ci piace crederle) e illegittime. La verità non è un prodotto da acquistare al supermercato, non è una causa da sposare intellettualmente o socialmente allo scopo di esibirsi, non è un biglietto da visita o una medaglia per farci vedere bravi, buoni e “spirituali”; non è un essere politicamente corretti nella forma, ma è un essere, davvero, buoni e giusti (nulla a che vedere col “buonismo”) nella sostanza. Non è un’asserzione di superiorità del proprio ego, non può e non deve essere imposta. La Verità è una ricerca continua, in itinere, un lungo e affascinante cammino da costruire passo dopo passo, giorno dopo giorno, come la vita e la sādhanā tutta. Un qualcosa di cui, prima o poi, si fa esperienza, quando si ha un cuore grande e puro e un’attitudine innata, modellando e raffinando se stessi nel fuoco della pratica. «Non dire parole vere ma ostili; dì parole cortesi e non false. Questa è rettitudine eterna» (Sankara).
Soprattutto, se forse puoi mentire agli altri, non potrai, mai, mentire a te stesso. Vale quindi la pena lavorare affinché la persona che vedi nello specchio sia il riflesso vero di quel che sei integralmente, con gli occhi specchio dell’anima.

Vi sarebbero ulteriori esempi tra i vari possibili, di ahiṃsā e satya, ma preferisco, come da mia impostazione, lasciare piena libertà e facoltà al singolo, di trovare o ritrovare le proprie modalità, per comprendere, assorbire e soprattutto vivere fino in fondo questi due meravigliosi ed universali principi. Ahiṃsā e Satya, difatti, sono le basi della sādhanā e non è un mero e formale dovere averli sempre presenti, ma un grande e squisito piacere: essi ci insegnano e ricordano, difatti, la concretezza, il giusto vivere, l’umiltà, che non è falsa modestia, bensì il giusto e organico atteggiamento verso una sapienza così ricca e ampia, nei confronti della quale si è e sarà sempre degli studenti, anche quando si è praticanti e/o insegnanti esperti. Senza ahiṃsā e satya non può esservi yoga: essi sono i pilastri dello yoga. Ed è bene che un edificio armonioso e bello abbia nobili e solide fondamenta.

Chiara D’Ottavi

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