Ancor prima d’iniziare a scrivere l’articolo, il mio pensiero è che, per ciò che il lettore leggerà, probabilmente s’indignerà.
Parto col chiedermi: quanto è verità, quanto invece credenza, nell’ambito dello yoga (योग) e tutto ciò che ne gravita attorno? Questo è l’approccio con il quale bisognerebbe affacciarsi a questa meravigliosa disciplina, un approccio aperto, di accoglienza, con il beneficio del dubbio.
Approfonditi studi accademici hanno dimostrato ormai da tempo che ciò che noi crediamo di sapere del Sub-continente indiano è principalmente una favola romanza di ciò che è una realtà culturale molto complessa e profonda che, essendo così distante dalla nostra, è stata edulcorata e stereotipata al fine di essere resa comprensibile a coloro i quali non hanno avuto l’esperienza diretta.
Questo fenomeno si chiama orientalismo, ossia rendere comprensibile ciò che è l’Oriente a coloro che sono nati e cresciuti altrove e che mai si sono recati in queste terre lontane, quindi privi di esperienza diretta.
In questo modo, inizia la discriminazione tra ciò che ci viene insegnato durante la pratica dello yoga e ciò che sono oggettivamente i significati che gli insegnanti tentano di restituire agli interessati.
In merito ad alcuni temi si sono scritti fiumi di parole, come ad esempio in riferimento agli insegnamenti contenuti negli aforismi dello yoga, gli Yogasūtra (योगसूत्र) di Patañjali (पतञ्जलि).
Il testo, una guida sintetica alla meditazione, la cui stesura è collocata dagli studiosi in un periodo compreso tra il II° sec. p.e.v. e il VI sec. e.v., rende scritte le indicazioni necessarie al fine di rendere efficace la pratica personale della meditazione. Il fine ultimo per il praticante è aggiungere lo stato beato, il samādhi (समाधि). Questo testo di riferimento tutt’oggi attuale, contiene terminologie di cui è difficile dare traduzione precisa. Questo perché spesso in un’altra cultura le parole hanno significati diversi e non traducibili.
Un esempio è ahimsā (अहिंसा), spesso restituito con il termine non uccidere e non violenza, ma in realtà l’etimologia del termine è dimostrato dai sansicristi essere innocenza nelle azioni, oppure anche mansuetudine.
Un altro esempio lo troviamo nella Bhagavad Gītā (भगवद्गीता), facente parte dell’epica indiana, racconta attraverso il dialogo tra Kṛṣṇa (कृष्ण) e Arjuna (अर्जुन) quelli che sono i principi che muovono l’Universo e la società, ossia Dharma (धर्म) e Karma (कर्म). Solitamente li sentiamo resi come regole e ritorno delle proprie azioni. In realtà, possiamo provare a tradurli con gli insiemi dei regolamenti di comportamenti, di condotta e di funzionamento degli ambiti ai quali si pone l’attenzione, come: l’ambito personale, quello della famiglia, della società, del lavoro, della natura e tanti altri, e al principio di azione e reazione.
Questi esempi rientrano in quello che viene erroneamente definito induismo, ma induismo non è, perché è un termine inglese, coniato solo nel diciannovesimo secolo durante la dominazione imperialista inglese nei confronti delle popolazioni indigene del Sub-continente indiano. A dirla tutta, nemmeno gli inglesi lo inventarono, ma lo ripresero dalla storia, in quanto etimologicamente, hindū (हिन्दू) deriva dal sanscrito shindu (शिन्दु) che significa fiume (l’attuale fiume Indo), diventato hindu in antico iranico e utilizzato inizialmente dai conquistatori turchi per indicare gli abitanti del bacino dell’Indo che non accettarono di convertirsi all’Islām. Queste “storpiature” fanno parte di un processo naturale e inevitabile che prova a rendere comprensibile ciò che non è, attribuendo aspetti propri di quella cultura ad aspetti simili alla nostra, cercando così le similitudini ma al tempo stesso modificandone i contenuti. Questo è l’orientalismo, un fenomeno che racconta in maniera semplicistica e spicciola ciò che in realtà è una cultura e una tradizione molto complessa e ricca di sfumature di un paese grande tanto quanto l’Europa, ma che se mai visitato, viene semplificato alla realtà molto più modesta dove siamo nati e cresciuti.
Al termine Induismo, in realtà, andrebbe sostituito Sanātana Dharma (सनातन धर्म), il quale può essere reso con legge eterna.
Questi sono alcuni casi in cui chi gravita nello yoga si ritrova inconsapevolmente immerso e circondato. È facile purtroppo che la conseguenza sia credere per fiducia a ciò che spesso viene raccontato in maniera fallace.
Sapere questo è utile a ristabilire un certo ordine culturale e a non “bersi” tutto ciò che viene detto e scritto.
Ultimo in ordine di tempo è una proposta che ricevetti alcuni mesi fa, quella di provare a seguire on-line un corso di meditazione gratuito, condotto da un importante spiritualista di fama mondiale, di cui aimhè possiedo un libro di ayurveda nella mia libreria, acquistato in tempi non sospetti. La proposta molto carina consisteva nel meditare ogni giorno, seguendo un percorso specifico, con il fine di restituire benessere psicofisico alle persone, recitando un mantra. Uno degli ultimi giorni il mantra fu satyame vijayate (सत्यमे विजयते), tradotto in “mi apro alla verità e alla luce”, ma che in realtà dal sanscrito si traduce in “(la) Verità trionfa”. Il problema di questi insegnamenti fallaci è che se non si compie una ricerca approfondita e se non si è dotati degli strumenti adeguati per farlo, ci si vola in mezzo convinti di ricevere insegnamenti autentici.
Io stesso inizialmente credetti che fosse giusto così, poi osservando il traslitterato dal devānagarī (देवनागरी) qualcosa mi stonava e verificai scoprendo che non vi erano accezioni che potevano tradurre tale mantra come affermava questo maestro, ma che il significato era un altro. In seguito alla mia scoperta percepivo anche il significato era più autentico, quindi non avevo solo conferme accademiche attraverso l’analisi grammaticale e la ricerca sul dizionario sanscrito, ma una comprensione differente del mantra. Insomma, mi chiedo cosa possa significare dal punto di vista pratico “aprirsi alla verità e alla luce”… mi sembra quasi uno spot pubblicitario di un fornitore di energia elettrica, mentre invece “la Verità trionfa”, significa che ciò che è autentico ha la meglio su ciò che non lo è. Possiamo quindi affiancarlo a detti popolari della nostra cultura come “la verità viene sempre a galla”, “le bugie hanno le gambe corte” ecc…
E’ molto difficile avere la preparazione adeguata per chi riceve gli insegnamenti e quindi riuscire a discernere ciò che è esatto da ciò che sono castronerie. Ricordo un’esilarante teatrino qualche anno fa. Mi trovavo a Merano e partecipavo a un festival dello yoga, era presente un’autorità della filosofia e cultura indiana, che era stato uno swāmī (स्वामी) per alcuni anni ed aveva due lauree in materia, una delle quali in sanscrito. L’interprete era un’insegnante di yoga molto famoso a livello internazionale, il quale, sebbene molto preparato, non aveva una laurea in lingua sanscrita. Il primo parlava in inglese e pronunciava spesso termini sanscriti, il secondo traduceva dall’inglese e ripeteva questi termini. Spesso capitava che il primo correggesse il secondo su sfumature che a quel tempo non coglievo e non ne comprendevo nemmeno la ragione, ad esempio la lunghezza della vocale a oppure la pronuncia della consonante s. In modo particolare bisogna sapere che la a può essere breve o lunga e di s ce ne sono tre in sanscrito, una palatale, una cerebrale e una dentale. Il sanscrito è una lingua così precisa e meticolosa da entrare in competizione con la matematica, ossia una a lunga o breve cambia il termine della parola, quindi il significato. Questo vale per le s e tutti gli altri suoni facenti parte il sillabario devānagarī. Per capirci, è come dire in italiano papa e papà. Meno male abbiamo riso tanto, erano bravi entrambi a non prendersi troppo sul serio e allo stesso tempo offrirci il meglio.
Sarebbe molto bello, facile e onesto che gli insegnanti di yoga o i sedicenti maestri di tale disciplina studiassero di più alla fonte e si bevessero meno ciò che a loro volta ricevettero come informazione apparentemente esatta e verità. C’è tanto da fare. Personalmente, da quando mi sono reso conto di tutto questo “inquinamento culturale”, ho preso le distanze da certe situazioni. Ho iniziato a studiare presso fonti autorevoli ufficiali, intraprendendo così un percorso di “purificazione culturale” come dovere morale nei miei confronti e nei confronti di coloro i quali seguono le mie classi di yoga. Chissà se un giorno in Occidente riusciremo ad avere idee chiare in merito a questa cultura e filosofia che fonda le sue radici nella notte dei tempi e che, al netto del tentativo di distruzione colonialistico subito, resiste in qualche modo sopravvivendo ancora oggi.
vero… per esempio anche “classi di yoga” è un inquinamento culturale anglofono (da yoga class). In italiano, bisognerebbe dire “lezioni di yoga”, in quanto classe significa: “Unità elementare di una scuola, risultante dal raggruppamento degli alunni che seguono lo stesso programma”.