Āsana è il termine sanscrito che, nel contesto yogico, viene generalmente tradotto con “postura statica”, “sedile / seggio / piedistallo”, ma anche con “offrire il seggio” – interessante è allora chiedersi a chi, a cosa.
La stessa parola però in ambito ayurvedico indica piante curative, ma anche -genericamente- cibo / nutriente, mentre in relazione alla legge universale del Dharma designa strategie. E altro ancora1.
Alcune āsana portano il nome di elementi naturali, richiamandone gli archetipi simbolici e le forze, altri il nome dei saggi che le hanno praticate con successo -fino cioè a raggiungere la meta finale-, altre ancora sono descritte dalle zone anatomiche che coinvolgono.
Nella pratica personale può capitare di accorgersi di āsana di “elezione”. Di esperienze posturali cioè, che ci riportano a “casa”, avvicinandoci alla stabilità e alla confortevolezza2 e insieme all’assorbimento nell’infinito3. Queste āsana ci approssimano significativamente al concetto di yug, unione4 e se ne riemerge ritemprati, vivificati.
Vakra jānusīrsāsana, letteralmente la “posizione in torsione della testa al ginocchio” per me è una di queste. Il che mi ha portato a “studiarla” e a “studiarmi” da più punti di vista.
Dal punto di vista fisico: analizzando le resistenze che incontravo ho potuto esercitarmi a poco a poco a scioglierle. Quali? Ad esempio l’allungamento di più strutture muscolari a livello delle gambe – adduttore, fragile, gemelli, etc.-. Come pure il grande lavoro sui fianchi: l’intenso stiramento del gran dorsale da un lato e degli obliqui dall’altro, unita alla torsione della colonna vertebrale che lavora sugli estensori spinali produce nel complesso una delle più significative mobilizzazioni della gabbia toracica il che si traduce in una maggiore libertà ed ampiezza della dinamica respiratoria5. Tutto questo andrebbe vissuto allentando contemporaneamente le tensioni di trapezio, romboide, fino alle spalle, al collo, al viso, all’intero cranio, al contenuto del cranio e al “ronzio” ivi contenuto.
Dal punto di vista mentale: per provare a ridurre l’attività mentale (e la volontà performativa) durante la realizzazione della postura ho trovato utile intraprendere un circuito sottile6. Un circuito ellittico, una sorta di orbita, che si snoda a partire dal girovita in estensione, con l’inspirazione, per percorrere tutto il fianco, il braccio, la mano magari fino al piede (si può solo “immaginare” di tenere, senza effettiva presa fisica). Dal piede poi, espirando, si percorre il retro e l’interno della gamba distesa, passando dal perineo, per tornare al punto di partenza e intraprendere un nuovo ciclo. Senza forzare. Senza voler arrivare per forza da qualche parte.
Fondamentale è poi uscire dalla posizione. Rivolgendosi con un morbido movimento semicircolare verso il terreno e “camminando” con le mani lateralmente portare il tronco prima al centro e poi lentamente alla verticale. Per ultima, ancora una volta, la testa per scoprire che magari il “ronzio” è assente.
Ecco, quello che accade a questo punto, quando cioè tutto finisce e non resta che osservare, per me è nel tempo divenuto sempre più importante e rigenerante: una sorta di sospensione, di pausa, di quieta visione.
In relazione alla medicina tradizionale cinese: la posizione, come potete verificare dalle immagini, stimola i meridiani di fegato e vescica biliare (cistifellea). Secondo la medicina tradizionale cinese questi canali sono legati all’elemento primaverile del Legno7.
Il lavoro su questi meridiani (e sugli organi corrispondenti) riequilibra la depurazione del sangue, sul fronte del fegato e il buon funzionamento della digestione grazie all’accumulo e al corretto rilascio della bile, sul fronte della cistifellea. Complessivamente quindi si fa riferimento all’eliminazione delle scorie fisiche8.
A livello sottile il loro corretto funzionamento produce una “spinta verso l’alto dell’azione” una sorta di grinta positiva o di rabbia positiva (se necessaria per portare avanti la propria “azione”). Il fegato ha una natura diffusiva (il sangue arriva ovunque nel corpo) e necessita quindi di libertà di movimento ed espressione, mentre la cistifellea legata alla possibilità di effettuare scelte (quanta bile rilasciare) implica il coraggio. Difendere quindi con una sana rabbia la propria libertà d’espressione e il coraggio delle proprie scelte è legittimo.
Quando però si crea uno squilibrio in questi “movimenti” la rabbia diventa distruttiva e immotivata e si esprime in inutili eccessi di ira.
Anche nella cultura indiana è l’ eccesso indiscriminato di rabbia, l’ira non motivata (krodha) ad essere considerata uno dei sei difetti (doṣa) dello Spirito non per forza la rabbia in sé. Non ne sono immuni neppure gli asceti né i rishi che, qualora disturbati nella loro meditazione, sono in grado con un solo sguardo (fegato e occhi sono sempre in stretta relazione) di creare deserti facendo evaporare interi laghi o incenerire eserciti. Così si narra in molte epopee indiane. Tuttavia non avrebbero potuto evitarlo con la loro saggezza, era proprio necessaria quella portata distruttiva?
Si può allora riflettere su quanto la consapevolezza e la strategia di risposta, a ciò che ha innescato il moto della rabbia, facciano la differenza. Comprenderlo non implica necessariamente saperlo tradurre in azione. Ci vuole tanto esercizio, come per āsana. Ma non rispetto alla realizzazione fisica (quello è solo l’inizio, è la parte “facile”!), quanto alla possibilità di saperla/saperci osservare chiaramente una volta lasciata andare. Stare con ciò che resta e farne tesoro.
Un asana come esempio. Queste sono considerazioni applicabili ad ogni āsana poiché la possibilità di fare tesoro di quella “quieta visione” maturata nella “sospensione” riguarda ciascuna di loro e ciascuno di noi. Tale esperienza potrebbe allora essere il faro per condurci verso l’integrazione delle forze e delle spinte che ci attraversano promuovendo una trasformazione interiore. Non sarebbe magnifico, non sarebbe la strada migliore in termini di crescita armonica e dunque salute psico-fisica?
Intraprendere un percorso come quello dello yoga che contempla tutte queste (e ancor di più!) componenti implica il non avere fretta. Il processo personale è tanto lento da risultare apparentemente statico, come la crescita di un albero. Con buona probabilità tale cammino sarà ciclico, come un orbita. La meta finale inoltre non è certa né identificabile.
Tuttavia se praticato nel rispetto dei propri limiti, con onestà e senza ambizioni questo percorso sarà intimamente autoconoscitivo, profondamente nutriente e salutare, intrinsecamente trasformativo.
Buongiorno,
ho cercato di salvare e stampare questo articolo molto interessante per condividerlo con le mie allieve, ma forse non è possibile o non sono solo capace. Ci sarebbe la possibilità? Ho provato anche a cliccare su “abbonati” ma non è comparso nulla…
Svelatemi l’arcano!
Un saluto,
Cristina
Cristina, è proprio così. Gli articoli non sono volutamente scaricabili, poichè si vuole incoraggiare la consultazione del Magazine online. Alle sue allieve può girare il link all’articolo. Grazie e buona serata