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Citta Saṃtāna (tibetano sems rgyud.Rgyud) è il “flusso mentale” o “flusso della coscienza” la cui percezione rappresenta, allo stesso tempo, lo strumento e il punto d’arrivo delle pratiche meditative.

Tecnicamente potremmo definire Citta-Saṃtāna come “flusso, consequenziale, degli istanti di consapevolezza sperimentati dal praticante“.

Per fare un esempio è come se facessimo una serie di sogni nei quali, ogni volta, la storia comincia dal punto in cui si era interrotta nel sogno precedente. Anche se ciascun sogno avvenisse a distanza di mesi o anni dal precedente, avremmo la sensazione di un “continuum”, come un film che, nonostante sia interrotto dagli spot pubblicitari, mantiene la propria coerenza narrativa.

Citta-Saṃtāna, inteso come “sequenza di istanti di pura consapevolezza”, è ciò che ci permette una continuità coscienziale sia durante la vita terrena – una specie di centro di gravità permanente – sia, dice chi crede alla reincarnazione, tra una vita all’altra, quasi fosse la fiamma che viene passata da una candela all’altra.

Il “flusso mentale” in pratica ci fornisce una continuità della personalità in assenza di quel “” assoluto, che va tanto di modo nelle pratiche post-new age, di cui il buddhismo delle origini pare negasse l’esistenza.

Ma non si tratta solo di una necessità per così dire psicologica, che impedisce all’individuo di disperdersi nelle mille e mille sfaccettature della sua personalità, giacché Citta-Saṃtāna è anche la base di ciò che viene talvolta chiamato “tulpa“, ovvero la capacità, magica, di creare immagini, oggetti e fenomeni con il potere della mente.

Buddha a dar retta alle scritture, era in grado di creare un corpo mentale, detto manomāyakāya, (vedi “Samaññaphala Sutta”) e a moltiplicarlo fino a riempire il cielo di infinite forme a sua somiglianza (vedi “Divyāvadāna”), proprio grazie all’utilizzazione del flusso mentale. Nel “Patisambhidamagga” (canone Pali) e nel “Visuddhimagga” di Buddhaghoṣa, si afferma che gli yogin, usando Citta-Saṃtāna possono creare un corpo mentale con il quale viaggiare nei regni terreni e nei regni celesti.

Questa capacità di usare il flusso mentale viene definita nell’Abhidharmakośa di Vasubandhu “nirmita“, mentre Asanga nel “Bodhisattvabhūmi” la chiama “nirmāṇa” e la definisce “un’illusione magica e fondamentalmente, qualcosa senza una base materiale”.

In tempi moderni la teosofa e Gran Maestra della Massoneria Alexandra David-Neel (vedi: David-Neel, Alexandra; DʼArsonval, A. 2000, “Magic and Mystery in Tibet”; Escondido, California: Book Tree) definisce i tulpa “formazioni magiche generate da una potente concentrazione di pensiero” e racconta di essere stata testimone di fenomeni paranormali legati al Citta-Saṃtāna nel Tibet del XX secolo. Secondo David-Néel “un Bodhisattva completo è in grado di eseguire dieci tipi di creazioni magiche.”

Sembra incredibile, ma la testimonianze sono molte e, pare, attendibili.

Il potere di produrre formazioni magiche durature che abbiano effetti nella realtà materiale non apparterrebbe solo ai grandi illuminati: ogni essere vivente sarebbe in grado di generare delle “forme pensiero” (altra definizione, di origine teosofica, di tulpa) il cui grado di “realtà” dipenderebbe solo dai diversi livelli di concentrazione del praticante.

Secondo Alexandra David-Néel i tulpa avrebbero la capacità di sviluppare una propria mente:

“Una volta che il tulpa è dotato di sufficiente vitalità per essere capace di recitare la parte di un essere reale, tende a liberarsi dal controllo del suo creatore. Gli occultisti tibetani, accade quasi meccanicamente, proprio come il bambino, quando il suo corpo è completato e capace di vivere a parte, lascia il grembo materno.”

La studiosa franco-belga sosteneva di aver creato personalmente un tulpa con la forma di un “frate allegro”. Il frate in seguito avrebbe sviluppato una vita propria e,per evitare eccessivi problemi, si dovette interpellare un monaco esperto per distruggerlo.

Scrive ancora David-Néel:

“Forse ho creato la mia allucinazione, ma anche gli altri potevano percepirla”.
Il “flusso mentale” sarebbe quindi sia una via per liberarsi “dalla catena delle rinascite”, sia la chiave per accedere ai poteri magici.

Leggende? Esagerazioni?

Possibile, anche se, di certo l’immagine dei bodhisattva che creano dei corpi mentali a loro immagine, dotati di coscienza propria, e li mandano in giro per questo e per gli altri mondi stride un pochino con l’idea che abbiamo oggi del monaco buddista: praticare al fine di ottenere poteri psichici pare poco in linea ciò che ci hanno insegnato sulla pratica buddhista, finalizzata – dicono – alla quiete della mente e al distacco dalle passioni.

Però, a leggere testi come “Divyāvadāna Patisambhidamagga” e “Visuddhimagga” si ha quasi l’impressione che Buddha e i suoi discepoli fossero quasi dei maghi e che facessero mostra, senza troppo pudore, dei loro incredibili poteri psichici e la fastidiosa mosca della curiosità comincia a ronzare nelle orecchie dei praticanti.

Ammesso e non concesso che gli yogin antichi riuscissero a materializzare corpi ed esseri con una propria volontà, in che modo potremmo riuscire ad attivare (o a percepire e comprendere) Citta Saṃtāna?

I metodi buddhisti, a quanto credo di aver capito, non differiscono in nulla dagli insegnamenti di Patañjali, anzi se guardassimo con occhi buddhisti agli Yoga Sūtra, secondo me potremmo scoprire che descrivono, in buona parte, “tecniche di attivazione del flusso mentale”, solo che andrebbero letti con attenzione, facendo caso all’uso delle singole parole, al significato che queste assumono nella letteratura indiana. E soprattutto non dovremmo tener conto della maggior parte delle traduzioni odierne.

Patañjali – o chiunque abbia scritto agli Yoga Sūtra – nel primo libro, usando moltissimi di termini tecnici buddhisti, descrive tutta una serie di metodi per purificare la mente, utilizzando un gran numero di termini tecnici buddhisti. Vuoi vedere che sta tentando di insegnarci ad attivare quello che abbiamo chiamato “flusso mentale”?

I suoi versetti, se si fa riferimento agli insegnamenti di Buddha, cambiano sostanzialmente di significato e, secondo me – ma non essendo un sanscritista potrei aver preso delle cantonate – diventano infinitamente più chiari.

Faccio un esempio con il versetto 1.21.

Nel sūtra precedente (1.20) Patañjali descrive un percorso graduale che il praticante dovrebbe intraprendere per purificare la mente e realizzare un particolare stato di coscienza/conoscenza. Adesso scrive:

तीव्रसंवेगानामासन्नः ॥२१॥
tīvra-saṁvegānām-āsannaḥ ॥21

Sentite come traducono tre dei più grandi maestri del’900:

  1. Swami Sacchidananda: “To the keen and intent practitioner this [Samadhi] comes very quickly”.
  1. Swami Prabhavananda: “Success in yoga comes quickly to those who are intensely energetic”.
  1. Swami Vivekananda: “Success is speeded for the extremely energetic”.

In pratica i tre concordano con l’affermare che Patañjali ci vuole insegnare che “più alacremente si lavora e prima si raggiunge l’obbiettivo“. La maggior parte dei commentatori moderni si adegua a questa interpretazione, e nessuno si interroga sulla evidente banalità delle parole del “padre dello yoga”, come Swami Vivekananda definiva Patañjali.

Ma, scusate, è possibile che il testo più importante dello yoga ci dica che bisogna “usare l’olio di gomito”?
Possibile che gli insegnamenti del “padre dello yoga” siano a livello di “chi dorme non piglia pesci”?

Il sūtra 1. 21 avrebbe potuto scriverlo mia nonna Maria, che sfoderando la sua innegabile saggezza popolare magari avrebbe aggiunto “Chi ben inizia a metà dell’opera” e “la gatta frettolosa fece i gattini ciechi”.

Mantenendo tutto il dovuto rispetto per Vivekananda, Prabhavananda, Sacchidananda e i loro epigoni moderni e sono andato a cercare il significato delle singole parole sul vocabolario Monier-Williams:

Tīvra = “aspro, severo, intenso”.

Saṁvegāna = “meraviglioso, impetuoso, veemente, terribile, shock emotivo”.

Āsanna = “vicino, nelle vicinanze, prossimità”.

Possibile che le interpretazioni più famose in circolazione tengano conto di qualcuna delle regole del sandhi che io non conosco, ma leggendo il significato nudo e crudo di queste tre parole non riesco proprio a capire come lesi possa interpretare, per esempio” “To the keen and intent practitioner this [Samadhi] comes very quickly”.
Per ciò che mi riguarda, approfondendo la ricerca, sono rimasto colpito dall’uso che si fa nel buddhismo e nell’estetica indiana (Abhinavagupta) del termine saṁvegāna, in pali samvega.

Si tratta di un sinonimo di “विस्मय vismaya (stupore) e indica l’abbassamento del livello di coscienza che si prova di fronte ad una profonda esperienza estetica (sindrome di Sthendhal), ad un piacere sublime o ad un dolore devastante.

Saṁvegā è la condizione che precede l’illuminazione del Buddha e l’insegnamento delle quattro nobili verità e dell’ottuplice sentiero.

Si tratta dello shock emotivo che Shakyamuni sperimenta dopo aver meditato sulla malattia, la vecchiaia e la morte, uno dei fondamenti dello yoga buddhista.

Se considerassimo la possibilità che Patañjali abbia utilizzato termini tecnici del buddhismo i versetti degli Yoga Sūtra acquisirebbero significati inaspettati e magari il terzo libro, dedicato interamente ai poteri psichici assumerebbe un valore completamente diverso, rispetto a quello che gli attribuisce comunemente.

Ecco come potrebbe essere la traduzione del versetto 1. 21 secondo me:

तीव्रसंवेगानामासन्नः ॥२१॥
tīvra-saṁvegānām-āsannaḥ ॥21

Tīvra = “forte, severo, aspro, intenso”.

Saṁvegāna1= “impetuoso, veemente, meraviglioso, terribile, shock emotivo”.

Āsanna = “vicino, nelle vicinanze, prossimità2”.

21. Questo percorso realizzativo viene innescato o accompagnato dalla pratica dello shock emotivo (per esempio dalla meditazione sulla malattia, la vecchiaia e la morte o sulla caducità della bellezza)3.
Secondo me la mia traduzione da praticante “ignorante” – non sono certo un sanscritista – ha un senso, ma la cosa più importante e che se avessi una qualche ragione, ovvero se Yoga Sūtra utilizzassero la terminologia buddhista, il significato di molti versetti di Patañjali cambierebbe sostanzialmente.

Prendiamo il secondo, celebre versetto, che di solito viene tradotto con “lo yoga è la cessazione delle modificazioni della mente”:

योगश्चित्तवृत्तिनिरोधः ॥२॥
yogaś-citta-vṛtti-nirodhaḥ
2

Citta = “cuore, mente, ragione, intelligenza”.

Vṛtti = “attività, movimento, modo di essere, comportamento, predisposizione ad un determinato comportamento,”.

Nirodhaḥ = “estinzione, confinamento, imprigionamento, controllo, soppressione, annichilimento”.

La traduzione “lo Yoga è l’arresto delle modificazioni della mente”, in linea con la maggior parte delle interpretazioni, non è in grado di rendere la complessità dell’originale. Vṛtti, tradotto solitamente con “modificazioni” nella forma equivalente vṛtta nel Ṛg veda assume il significato di “ruotato, messo in moto, fatto girare come una ruota” mentre nel Śatapatha Brāhmaṇa viene utilizzato nel senso di “rotondo, arrotondato, circolare”, per cui “citta vṛtti” potrebbe essere tranquillamente tradotto come “vortici della mente” o “movimenti circolari della mente”. Probabilmente Patañjali si riferisce a una serie di processi mentali che si innescano, in maniera autonoma, in determinate condizioni, allontanando l’essere umano dalla sua “vera natura” (svarūpe) che sarebbe quella “di colui che tutto vede” (draṣṭuḥ), il “veggente”, ciò che noi definiamo “il vero Sé”. Questi processi determinano cinque diverse condizioni della mente (dalle quali, a loro volta sono determinati dando vita ad un circolo vizioso) chiamate nel buddhismo delle origini cittabhūmi, o “territori della mente”:

Kṣipta, “confusione”.

Mūḍha, “ottusità, stupidità”.

Viksipta, “dispersione, agitazione”.

Ekagra, “attenzione concentrata”.

Niruddha, “controllo”.

Se teniamo conto degli insegnamenti del buddhismo, Yogaś-citta-vṛtti-nirodhaḥ, potrebbe significare che lo yogin deve mantenere la mente nella condizione di controllo (niruddha) dei vortici del pensiero. Una condizione che favorirebbe la percezione (e l’utilizzazione) di un flusso di energia chiamato citta-saṃtāna (dove saṃtāna significa “serie di eventi in successione, continuità, flusso ininterrotto”). Continuando la lettura degli “aforismi dello yoga” scopriremo in 3.94 e in 3.105 che per Patañjali nirodha è “un flusso tranquillo”. Ciò significa che potremmo considerare cittavṛtti-nirodha un sinonimo di citta-saṃtāna, per cui la traduzione del secondo versetto potrebbe essere questa:

Lo yoga è il flusso mentale”.

Se così fosse il libro di Patañjali non sarebbe altro che un manuale di istruzione per percepire/comprendere/attivare citta-saṃtāna, il flusso mentale, secondo le scritture che secondo le scritture, permetteva a Buddha e ai suoi discepoli di materializzare oggetti ed esseri dotati di coscienza.

Può darsi che la mia visione sia completamente errata, ma credo che potrebbe essere interessante rilegger gli Yoga Sūtra alla luce delle parole di Buddha.

1 Nel buddhismo la parola Pali samvega è spesso usata per indicare un’esperienza estetica, lo shock o la meraviglia che si può provare percependo la bellezza di un’opera d’arte. In altri contesti indica “l’arretrare per la paura” o il tremare per lo Per esempio, “gli uomini tremano (samvijante) al ruggito di un leone “(Atharva Veda VIII.7.15), “gli uccelli tremano alla vista di un falco” (ibid. VI.21.6); “una donna “trema” (samvijjati) e mostra agitazione (samvegam âpajjati) alla vista di suo padre”, e così fa un monaco che dimentica il Buddha (Majjhima Nikâya, I.186); un buon cavallo consapevole della frusta è “infiammato e agitato” (âtâpino samvegino, Dhammapada 144); e come un cavallo viene “tagliato” dalla sferza, così l’uomo buono può essere “tormentato” (samvijjati) e mostrare agitazione (samvega) alla vista della malattia o della morte e a causa di tale agitazione potrà comprendere fisicamente la verità ultima (parama saccam, la “morale”) (vedi: Anguttara Nikâya II.116).

Proclamerò“, dice il Buddha, “la causa del mio sgomento (samvegam). Ho tremato (samvijitam mayâ) quando vidi popoli che si dimenavano come pesci quando gli stagni si prosciugano, quando vidi il conflitto dell’uomo con l’uomo e la malvagità che festeggia nei cuori degli uomini “(Sutta Nipâta, 935938).

Lo stimolo emotivo di temi dolorosi può essere evocato deliberatamente quando la volontà o la mente (citta) è fiacca. Il praticante viene allora stimolato (samvejeti) a meditare sugli Otto Temi Emotivi” (atthasamvegavatthûni) (nascita, vecchiaia, malattia, morte sofferenze…);

Nello stato di angoscia che ne deriva, egli allora “rallegra” con il ricordo del Buddha, della Legge Eterna e della Comunione dei Monaci, quando ha bisogno di tale esultanza “(Visuddhi Magga, 135).

2 Vedi Rāmāyaṇa, dove āsanna viene usato anche nel senso di “realizzato, ottenuto”.

3 Per la traduzione di questo versetto ho preso come riferimento l’uso che si fa del termine saṁvegāna in testi buddhisti quali Yuvañjaya Jâtaka e Visuddhi Magga. Nell’Arte indiana saṁvega è considerato sinonimo di vismaya (“meraviglia, stupore”). Vedi “The Aesthetic Experience According To Abhinavagupta. Ed. Tr. R. Gnoli. Varanasi, 1968):

In the Spanda School (Vasugupta, etc.) an idea very like to that expressed by camatkara is conveyed by the word vismaya, astonishment. The yogin is penetrated by astonishment. The yogic stages are astonishment. The general idea underlying these words (compare, in this connection, also the Pali and buddhist term samvega) is that both the mystical and the aesthetic experience imply the cessation of a world—the ordinary, historical world, the samsara, and its sudden replacement by a new dimension of reality. In this sense, the two are wonder or surprise. A parallel of this idea of a kind of wonder, which fills the soul in front of the beautiful or of the scared, exists in the western thought also. We find it in Plato and especially in Neoplatonismus”.

4 Vyutthāna-nirodha-saṁskārayoḥ abhibhava-prādurbhāvau nirodhakṣaṇa cittānvayo nirodha-pariṇāmaḥ 9

5 Tasya praśānta-vāhitā saṁskārat 10

Paolo Proietti

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