Quando iniziai a praticare Yoga la mia vita era totalmente diversa. Per tanti anni avevo inseguito il sogno di raggiungere i massimi livelli nel canottaggio. Sport a cui avevo dedicato tutto me stesso. Avevo rinunciato all’adolescenza e a tutto quello che i ragazzi fanno a quell’età. Io mi allenavo, punto.
Ero cresciuto con il mantra “il dolore non esiste, tutto dipende dalla mente”.
E se da un lato questo aveva forgiato in me una volontà e una disciplina molto profonda, dall’altro aveva creato una mancanza di empatia sia verso me stesso, sia verso gli altri.
Poi la vita fece dei giri talmente assurdi che alla fine misi i piedi sul tappetino. Tra l’ultima volta che sfiorai un remo e la prima lezione di Yoga, passarono quasi 10 anni. Iniziai con l’Hatha, per poi arrivare all’Ashtanga dopo due anni. Il mio corpo era di legno. La mia mente e le mie emozioni di più.
Iniziai a praticare con l’unico obiettivo di sciogliere il corpo. Ero un robot programmato a quell’unico scopo. Misi gli asana al primo posto, anche se la spiritualità e la filosofia mi avevano sempre interessato. Ma molti anni dopo capii che anche quelle erano un modo per nascondermi dietro regole, forme di pensiero e dogmi rigidi che mi evitavano di ascoltare, di vedere veramente chi fossi. Ero un soldato che obbediva. Obbediva ad una serie di regole, schemi e meccanismi che mi facevano sentire al sicuro.
E nell’ Ashtanga Yoga trovai un mondo che mi faceva sentire a casa. Tutto molto strutturato, tutto molto quasi marziale nella disciplina e nella rigidità. Terreno in cui misi delle radici molto profonde. Per anni praticai creando schemi su schemi fisici, mentali ed emozionali.
La pratica era fine a se stessa. Tutto in funzione dell’asana o serie successiva. Violentavo il mio corpo ogni volta che salivo sul tappetino. Senza ascolto e col terrore di fermarmi anche un solo giorno per paura di tornare indietro. Per paura di perdere ciò che avevo conquistato con tanti sforzi e sudore. Mi ero privato nuovamente di tutto quello che secondo la mente mi poteva impedire di andare avanti. Ma il problema non era la rigidità che qualcuno critica nell’Ashtanga ma il mio approccio ad esso. Le parole fluire, ascoltare, abbandonare, lasciar andare non sapevo nemmeno cosa significassero. Letteralmente demolivo il corpo per provare a “farlo entrare” in asana sempre più difficili ed impegnative. Spingevo ogni fibra al limite. Ed ero sicuramente diventato un buon esecutore. Poi iniziai la quarta serie e cominciai a capire (grazie anche a quello che nel frattempo la vita mi faceva scorrere fuori dalla pratica). Per quanto spingessi mi sentivo come in catene. Lo sforzo non era più fisico. Mi sentivo ogni volta fuori posto. Per quanto cercassi di trovare la chiave di lettura di questa serie non ci riuscivo.
Cominciai a percepire che non bisognava costruire gli asana. Non serviva mentalmente essere in ogni fibra del corpo per comandarlo e forzarlo in posture vuote. Vuote perché erano semplicemente dei contenitori privi di una sostanza profonda. Erano solo riempiti da muscoli, tendini, e ossa. Nulla più. Tutto troppo denso per creare fluidità. Allora iniziai a provare a perdere la mia forma. Tutta la rigidità mentale, lasciar andare. Così scoprii l’elemento che governava questa serie: l’acqua. Ero stato terra, fuoco e aria nelle altre serie ma ero l’antitesi di questo nuovo elemento. Avevo passato anni ad imporre la mia forma cercandola di adattare forzatamente ad ogni situazione sopra e fuori dal tappetino. Ora mi si chiedeva l’esatto opposto. Da qui il viaggio che intrapresi rivoluzionò tutto. Niente più fissazioni e ossessioni varie. Pian piano mi spogliai di tutto. Rimasi per la prima volta in vita mia senza corazza spada e scudo. Ma per la prima volta lo stavo facendo naturalmente. Non perché qualcuno mi diceva che fosse giusto o perché era tra le regole da seguire. Perché lo sentivo veramente. Mi stavo ascoltando. Stavo imparando l’arte dell’abbandono. Stavo imparando ad essere acqua, senza più combattere.
Gli asana cominciarono a manifestarsi senza quasi che io facessi nulla se non abbandonarmi a quella fluidità che mi permetteva di percepire il vuoto. Ma un vuoto che riempiva. Vuoto di forma ma capace di riempire adattandosi. E questo comportò una rivoluzione totale in tutto. Finii la serie non so neanche come. Senza controllo. La mente non c’era più. Semplicemente ero aperto al cambiamento. Capii per la prima volta che non bastava salire su un tappetino per praticare yoga e soprattutto che a volte su quel rettangolo creiamo gabbie prive di qualsiasi fluidità e permeabilità. Capii che spesso nello yoga non si crea libertà ma ulteriori catene.
A volte penso ad una cosa e sorrido. Sorrido di come nella vita tutto sia collegato. Ho passato tanti anni sopra un imbarcazione a tentare di fluire il più possibile veloce sopra uno specchio d’acqua e poi mi sono ritrovato ad imparare a far scorrere in me quell’elemento senza più provarlo a governare e sfidare ma semplicemente accogliendolo, cercando di manifestare il suo flusso e corrente nella maniera più naturale possibile. Qualcuno diceva “tutto scorre”. Ma la cosa più difficile è permettere di farlo…