Non sono rare, nello Yoga e nel Taoismo, le testimonianze di pratiche basate sulla stimolazione “diretta” della ghiandola pituitaria, ovvero su particolari movimenti dei bulbi oculari, e sulla visione di una particolare “luce interiore” collegata presumibilmente alla secrezione – da parte della ghiandola pituitaria – di ormoni sessuali. Un tipico esempio di questo genere di “Alchimia interiore” è lo Yoga del Sesso medioevale – diffuso nell’XI secolo in Tibet e Nepal dalla coppia tantrica Nigumā e Nāropā – conosciuto come “Yoga delle sei membra” o “Ṣaḍaṅgayoga”. I “sei passi” di Nāropā – che differiscono sensibilmente dai “sei passi” insegnati dalla sua sposa mistica Nigumā – sono parte integrante del Kālacakratantra, una serie di testi e commentari che, formano, nel loro insieme un dettagliatissimo manuale di Yoga e di “fisiologia sottile”[1].
Prima di addentrarci nella descrizione delle specifiche tecniche operative – a cui dedicheremo probabilmente prossimi articoli – crediamo sia necessario accennare ai principi generali su cui si basano il Kālacakratantra e, in genere, le pratiche di Alchimia interiore dello Yoga medioevale.
Il praticante di Ṣaḍaṅgayoga doveva essere in grado di far circolare l’energia nei canali e nei plessi che fanno parte del – o vengono influenzati dal – cosiddetto “corpo sottile” definito Liṅga śārīra o Sūkṣma śarīra.
Nei testi si parla, in genere di 72.000 canali – nāḍī – che conducono il soffio vitale – prāṇa – in tutte le parti del corpo. I canali più importanti, secondo lo Ṣaḍaṅgayoga, sono sei di cui tre sopra la “ruota dell’ombelico” e tre, che rappresentano delle modificazioni dei tre superiori, nella zona sotto l’ombelico.
Il primo dei tre canali chiamato avadhūtī, khagamukhā, suṣumṇā o taminī (“la tenebrosa”) – che potremmo identificare con uno dei canali del midollo spinale – parte dalla fontanella anteriore e scende lungo la colonna vertebrale fino all’altezza dell’ombelico dove piegandosi a destra, dà luogo ad un altro canale – considerato una modificazione del canale centrale – chiamato śaṅkhinī, che svolge la funzione di emissione del seme.
Lungo questo canale centrale (formato in realtà dal canale mediano superiore e dal canale di destra inferiore) sono situati sei plessi energetici – cakra – da cui si diramano altri canali, considerati petali (dala), che raggiungono il numero totale di 156.
- Il primo cakra – dal basso – è nella zona dei genitali. Secondo la dottrina del Kālacakratantra è di colore azzurro (verde in altri tradizioni) ed ha 32 petali;
- Il secondo è nella zona dell’ombelico, è di colore giallo ed ha 64 petali;
- Il terzo è nella zona del cuore, è nero (blu secondo altre tradizioni) ed ha 8 petali;
- Il quarto è nella gola, è rosso ed ha 32 petali (16 secondo altre tradizioni);
- Il quinto, identificabile secondo noi con la ghiandola pituitaria – è nella zona della fronte, sopra le sopracciglia; è bianco ed ha 16 petali (32 secondo altre tradizioni);
- Il sesto è nella parte più alta del cranio (nel buddhismo uṣṇīṣa o “ciuffo di Buddha”), è verde ed ha 4 petali.
A sinistra e a destra del canale centrale – nella zona sopra l’ombelico, ci sono altri due canali, chiamati lalanā – detto anche iḍā – e rasanā – detto anche piṅgalā – che si avvolgono intorno ai cakra. In questi canali associati al Sole – canale di destra – e alla Luna – canale di sinistra – circola il soffio vitale durante l’inspiro e l’espiro (N.B. i due canali sono relativi al ciclo giorno–notte, e quindi potremmo trovare facilmente delle corrispondenze con le strutture del cervello con simili funzioni, come la ghiandola pineale). I tre canali fondamentali – avadhūtī, lalanā e rasanā – al cakra dell’ombelico si intrecciano, formando un nodo, quindi scendono verso il basso cambiando posizione:
- Avadhūtī, che in alto si trovava al centro, in basso è posizionato a destra e, con il nome di śaṅkhinī, svolge la funzione dell’emissione del seme;
- Lalanā, che si trovava a sinistra, si trova adesso al centro e svolge la funzione dell’escrezione delle feci;
- Rasanā, che si trovava a destra, si trova adesso a sinistra e svolge la funzione di escrezione dell’urina.
Al di sopra dell’ombelico il “soffio vitale” che scorre nei tre canali principali viene definito prāṇa, al di sotto dell’ombelico prende il nome di apāna.
Lo scopo della pratica dello Yoga è quello di arrestare (nirudh–) la circolazione del “soffio vitale” nei canali laterali – del Sole e della Luna – per convogliarlo nel canale centrale, detto avadhūtī.
Questo processo – l’arresto del soffio nei canali del Sole e della Luna ovvero l’interruzione del sistema di regolazione del ciclo giorno notte – viene paragonato alle eclissi, ragion per cui il canale mediano viene associato al “nodo settentrionale della Luna”, Rāhu – considerato responsabile, appunto, delle eclissi – e prende il nome di Taminī, “la Tenebrosa”.
Per provocare “l’eclissi di Sole e Luna” lo yogin pratica il prāṇāyāma, o “controllo del soffio”, variando la direzione, l’intensità e la durata di tre fasi associate ai tre momenti respiratori, ovvero:
Pūraka, kumbhaka e recaka, sono simboleggiati dalle sillabe OṂ, ĀḤ e HŪṂ, la cui recitazione, detta vajrajāpa o “recitazione del diamante” viene identificata con il prāṇāyāma stesso.
Nella teoria del kālacakratantra, il soffio vitale è il “veicolo” della mente, per cui “dal controllo del soffio si ottiene il controllo della mente”.
Dal controllo della mente a sua volta deriva il controllo del seme definito bindu (in tibetano thig le).
Il bindu, definito anche bodhicitta – “pensiero del risveglio” o “mente del risveglio” – risiede nella parte più alta del cranio, sotto la fontanella posteriore chiamata nello yoga buddhista uṣṇīṣa, che potremmo individuare come il “glande” del tronco encefalico.
Una volta attivato il desiderio sessuale – ovvero “una volte attivate le ghiandole che secernono gli ormoni sessuali” – il bindu cola lungo il canale centrale per arrivare, al glande del pene detto “gemma del vajra” o vajrāgra.
In questo percorso discendente penetra in tutti i centri energetici – cakra – assumendo, in quattro di essi, caratteristiche e nomi diversi:
- Alla gola diviene conoscenza, jñāna;
- Al cuore diviene mente/memoria, citta;
- All’ombelico diviene parola, vac;
- Ai genitali diviene corpo, kaya.
Jñāna, citta, vac e kaya vengono considerati quattro semi – bindu – diversi, che, durante la fase detta di “concentrazione” o “ritenzione” – dharana – devono essere “fissati” nei rispettivi cakra. Lo “scioglimento” del seme è causato dal “fuoco del desiderio” – kāmāgni – che giace nell’ombelico nella forma, ovviamente simbolica, di una giovane donna di bassa casta – caṇḍālī – chiamata in tibetano Gtum mo o “Fiera dama”. Caṇḍālī, rappresentata talvolta come una giovane vedova seduta sulla riva di un fiume (il canale mediano) in un certo senso è un energia che viene attivata “per risonanza” dalla presenza fisica di una yoginī, oppure da un’immagine che ritrae una donna – da sola o intenta a far l’amore con il partner – o da un immagine visualizzata[2]. Spesso con il termine Caṇḍālī si indica anche il canale mediano, “vivificato” dall’energia femminile pura.
“Caṇḍālī” – si legge nell’Hevajratantra – “s’infiamma nell’ombelico, e brucia i cinque Tathāgata, brucia Locan ā ecc. e, bruciatili, la luna, cioè il suono HAṂ, comincia a fluire”.[3]
Dove per Tathāgata si intendono i cinque elementi, “Locanā ecc.” sono i cinque sensi e gli oggetti di percezione, mentre il verbo bruciare deve essere inteso nel senso di “ridurre ad uno stato di non azione”. Il seme, disciolto grazie all’energia del desiderio, come si è detto, comincia a colare lungo il canale mediano facendo sperimentare al praticante quattro diverse condizioni di piacere o ānanda, ognuna delle quali è, a sua volta, suddivisa in quattro gradi definiti “piacere del corpo”, “piacere della voce”, “piacere della mente” e “piacere della conoscenza”:
- Il primo piacere è detto prathamānanda – “godimento iniziale” – e corrisponde alla discesa del seme dalla fontanella al punto in mezzo alle sopracciglia;
- Il secondo piacere è detto paramānanda – “sommo godimento” – e corrisponde alla discesa del seme dal centro della gola a quello del cuore;
- Il terzo piacere è detto viramānanda o vivindharamaṇānanda – “godimento dalle molte forme” – e corrisponde alla discesa del seme dall’ombelico al centro dei genitali;
- Il quarto piacere è detto sahajānanda – “godimento innato” o “godimento dello stato naturale” – e si sperimenta sul glande al momento dell’emissione.
Alla fine del processo di discesa del seme – caratterizzato da rāga inteso qui come “emozione del desiderio sessuale” – si ha un processo inverso detto virāga – “sazietà” – in cui il praticante sperimenta a ritroso il percorso precedente – ovvero sahajānanda, viramānanda, paramānanda, prathamānanda – fino ad arrivare ad uno stato di totale assenza di desiderio detto naṣṭacandra o “assenza della Luna” che indica la cosiddetta Luna nera, fase finale della Luna calante. L’uso del termine naṣṭacandra ci rivela che il percorso discendente e ascendente del desiderio corrisponde alle sedici fasi della Luna. Nel percorso discendente infatti:
- Il “primo godimento” – prathamānanda – diviso in quattro gradi – piacere del corpo”, “piacere della voce”, “piacere della mente” e “piacere della conoscenza” – coincide con il primo quarto della Luna crescente;
- Il “secondo godimento” – paramānanda – con i suoi quattro gradi coincide con il secondo quarto della Luna crescente;
- Il “terzo godimento” – viramānanda – con i suoi quattro gradi coincide con il terzo grado della luna crescente;
- Il “quarto godimento” – sahajānanda –con i suoi quattro gradi coincide con l’ultimo grado della Luna crescente.
Con l’orgasmo, ovvero il plenilunio, ha termine la “quindicina chiara” o “quindicina del desiderio sessuale” – ovvero il periodo di Luna crescente – ed ha inizio la “quindicina scura” o “quindicina del non desiderio sessuale” – ovvero periodo di luna calante – che nel percorso a ritroso, a partire dal plenilunio, passerà tutte le fasi precedenti fino ad arrivare alla fase della “assenza di Luna” – naṣṭacandra – o Luna nera, uguale e contraria al plenilunio. L’insieme del due quindicine costituisce il Saṃsāra; Per nirvāṇa con base – prathiṣṭita – si intende l’orgasmo ordinario; Per nirvāṇa senza base – aprathiṣṭita –si intende l’orgasmo della mente conseguente alla risalita dell’essenza del seme che avviene durante la pratica yogica;
Visto che ciò che viene definito saṃsāra è il continuo alternarsi dei due periodi – quindicina del desiderio e quindicina del non desiderio – lo yogin per interrompere questo processo “naturale” dovrà cercare di eliminare la “quindicina scura” ovvero la fase di assenza del desiderio sessuale.
Immaginiamo che il desiderio crescente sia un liquido bianco e il desiderio decrescente un liquido nero.
Se nella fase crescente il liquido bianco, dapprima in quiete nel punto più alto della testa, scende sempre più velocemente fino ad uscire dalla punta del pene (plenilunio), nella fase discendente il liquido nero – l’assenza del desiderio – salirà sempre più velocemente fino a riempire il punto più alto della testa (Luna nera).
Per invertire il processo naturale lo yogin dovrà controllare la fuoriuscita dell’essenza del seme – bodhicitta – e farla risalire lungo il canale centrale in luogo del liquido nero ovvero della “assenza di desiderio”.
Nel kālacakratantra lo scioglimento del seme a fini yogici – e non quindi a fini di riproduzione o di ricerca del piacere – è definito “Yoga del bindu”, mentre la sua risalita è definita sūkṣmayoga o “yoga sottile”.
La risalita del seme – sūkṣmayoga – avviene in quattro momenti distinti, vere e proprie operazioni alchemiche che avvengono nei centri dell’ombelico, del cuore, della gola e, infine, della testa:
- Niḥsyanda, emanazione (ombelico);
- Vipāka, maturazione (cuore);
- Puruṣakāra, attività (gola);
- Vaimalya, purezza (testa).
Questi quattro momenti sono accompagnati dai “canti delle dee”, con cui si indicano sia i canti reali eseguiti dalle yoginī che partecipano ai riti, sia i suoni interiori, di vario genere, percepiti dal praticante durante lo stato meditativo.
Durante la pratica dello “yoga del bindu” e dello “yoga sottile” il vajra del praticante deve essere mantenuto costantemente in erezione grazie alla presenza – fisica o visualizzata – della yoginī.
Questo processo è descritto chiaramente nei versi del Mūlakālacakratantra un testo oggi perduto, ma citato in molti commentari del Kālacakratantra[4]:
“Fissato che abbia il vajra nel loto, egli dovrà applicare il soffio vitale ai bindu, i bindu ai vari centri e [infine] arrestare il movimento dei bindu nel vajra.”
“Lo yogin dovrà stare sempre in erezione, dovrà avere il seme rivolto verso l’alto e, grazie all’unione con la mudrā, sarà visitato [N.d.A. avrà visioni di esseri divini] […] e […] diverrà vajrasattva in persona”.
L’arrivo del seme al centro della testa coincide con l’interruzione della circolazione del soffio nei due canali laterali (Sole e Luna) e questo porterà al progressivo rallentarsi delle fasi respiratorie fino all’ottenimento di una apnea spontanea. Questa progressiva soppressione degli atti respiratori – come dice Abhinavagupta nel Tantrāsara – conduce al “divoramento del tempo” che molti identificano con la realizzazione finale (o comunque con un indizio della realizzazione).
La soppressione di un atto respiratorio durante la pratica tantrica corrisponde ad un istante di “godimento supremo”. Dopo un certo numero di questi istanti – 1800 secondo il Kālacakra, permette di entrare in una serie di terre spirituali dette bhumi –probabilmente da intendersi come particolari stati di coscienza – che sono da considerarsi luoghi fisici, disposti, in corrispondenza dei vari cakra. Le terre spirituali vanno “esplorate” progressivamente, dal cakra dei genitali sino alla fontanella, ed ogni tappa è scandita da un numero progressivamente più elevato di sospensioni di atti respiratori e, quindi di istanti di beatitudine.
Alla fine dell’intero percorso, avverrà una trasformazione completa del corpo fisico, che prenderà il nome di “corpo di conoscenza”, o Jñānadeha.
Paolo Proietti e Laura Nalin
[1] La traduzione più attendibile del testo pare sia quella di Raniero Gnoli e Giacomella Orofino – pubblicata nel 1994 da Adelphi con il titolo “Nāropā, INIZIAZIONE, KĀLACAKRA” – alla quale faremo riferimento in questa breve trattazione.
[2] È bene a proposito fare delle precisazioni:
Nei testi tantrici non si fa menzione di tecniche analoga per attivare caṇḍālī nelle donne, ma si accenna a tecniche di autoerotismo e a “danze serpentine” che insorgono spontaneamente (Vedi. Drimé Kunga,“The Life and Visions of Yeshé Tsogyal: The Autobiography of the Wisdom Queen”, Snow Lion Publisher (2017). ISBN- 10 1611804345) il che, secondo noi, significa che per le concezioni tantriche la yoginī ha in sé una capacità di attivare naturalmente e di utilizzare le energie del desiderio.
L’uso del termine del caṇḍālī – che indica propriamente una donna appartenente alle caste più basse -viene di solito spiegato con la necessità del tantrico di andare oltre i principi del bene e del male, del puro e dell’impuro ecc. L’appartenenza delle più importanti maestre tantriche – come Yeshe Tsogyal, Ma gcig Lab sgron e Nigumā – alle classi abbienti e il loro essere donne di altissima preparazione culturale lascia intravedere nell’uso termine caṇḍālī, più che l’indicazione di una determinata provenienza sociale, la capacità di abbandonarsi ad istinti, tra virgolette, “bassi” e di compiere azioni e assumere posizioni che, allora come oggi, in certi ambiti vendono considerate “squalificanti”.
[3] Vedi Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero Gnoli e Gabriella Orofino. Pag. 71. Biblioteca Orientale 1. Adelphi 1994).
[4] Vedi Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero Gnoli e Gabriella Orofino. Pag. 75. Biblioteca Orientale 1. Adelphi 1994).
Paolo Proietti