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Idealizzato, mistificato, instagrammato. Muscoloso, scattante, snello e, nella gran parte dei casi, bianco. Se dovessimo dare retta a ciò che vediamo sui social o più in generale sul web, sembrerebbe questa la definizione contemporanea di “corpo” associata allo Yoga.

Eppure, secondo la filosofia che sottende questa disciplina millenaria ormai diventata di casa in ogni angolo della terra, il corpo altro non è che uno degli aspetti – e nemmeno il più importante – che compongono la nostra complessità di esseri umani.

Cosa è andato perduto, da quando lo Yoga ha attraversato l’Oriente per arrivare fino a noi? Ed è davvero una “perdita”, quella a cui stiamo assistendo o, piuttosto, una necessaria e inevitabile evoluzione?

Sono domande a cui non è facile dare risposta e penso che ognuno di noi possa parlare solamente attraversando la propria esperienza.

Perciò voglio ripercorrere la mia, ricordando cosa mi ha portato alla pratica dello Yoga (e dell’Ashtanga Vinyasa in particolare).

Fin dalla mia infanzia, il corpo è stato per me un potente mezzo di espressione. Dai primi anni come ginnasta, fino all’adolescenza trascorsa nelle scuole di danza, e infine lo studio delle discipline sportive come professione, il corpo ha sempre rappresentato per me una tappa obbligata per esprimere o contenere le emozioni. Sono arrivata alla pratica dello Yoga a trent’anni, anche se già a venti avevo esplorato questo sentiero ma, in Italia, avevo trovato solo Hatha Yoga, un metodo per me troppo statico, in cui faticavo a trovare a me stessa. Una volta sbarcata a Londra, nel 1998, e di ritorno da un lungo viaggio in India, mi sono finalmente imbattuta nell’Ashtanga Vinyasa e lì ho riconosciuto ciò che stavo cercando. E cos’era, in particolare?

Cercavo una disciplina che portasse alla luce la mia spiritualità, senza ignorare il corpo ma, al contrario, passandoci attraverso. Una pratica che rendesse il corpo non solo un ammasso di materia organica, ma parte di un tutto più complesso, più sofisticato, in cui riconoscere il soffio del divino – o, se preferite, di una intelligenza cosmica che racchiude l’universo conosciuto (e non).

Ed ecco che, su un tappetino di gomma, in una sala di fortuna, dai vetri appannati per il calore sprigionato dai praticanti, improvvisamente quella pratica si rivelava ai miei occhi – o meglio, ai miei sensi.

In quegli anni, non c’era mondo più lontano dal fitness (e dal suo immaginario) dello Yoga. Se in palestra si incontravano corpi levigati, abbronzati, vestiti con leggings di marca, in shala l’estetica sembrava dimenticata. Niente trucco (impossibile, sudando a quei livelli), outfit improvvisati e ridotti ai minimi termini, spesso nessuno spogliatoio. Non si trattava di una “mortificazione” ma, piuttosto, di un lasciare in secondo piano l’aspetto esteriore, a favore delle caratteristiche di purificazione della pratica. La profusa sudorazione causata dai vinyasa e dalla respirazione ujjayi, rendeva praticamente irrisorio cosa indossare – purché fosse comodo. Instagram e Facebook all’epoca non esistevano e la pratica dinamica era lasciata al passaparola dei praticanti.

Fast forward di pochi anni, ed ecco che le qualità fisiche della pratica – che innegabilmente hanno un impatto estremamente positivo sul corpo – sembrano prendere il sopravvento. Il tanto temuto ego, fino ad allora considerato il nemico numero uno dello Yogin, sgomitando un po’ riconquista le scene. Cosa è accaduto? Ma soprattutto, è davvero così negativo questo apparente “spostamento” dell’attenzione dai corpi sottili a quello più grossolano che, tuttavia, è quello che ci accompagna in questo viaggio terreno?

Sicuramente, nel corso degli ultimi decenni, anche lo Yoga come molte altre discipline si è evoluto. La sua diffusione in Occidente ha comportato una inevitabile contaminazione con approcci diversi, forse più scientifici, alla pratica. Da questo punto di vista i benefici sono moltissimi: le conoscenze anatomiche nulla tolgono alla visione spirituale, semmai la arricchiscono di maggiore consapevolezza. Conoscere meglio ciò che avviene a livello biomeccanico mentre pratichiamo contribuisce ad eliminare le occasioni di infortunio. Quando gli elementi biomeccanici vengono integrati a livello conscio, il praticante è più libero di concentrarsi sugli aspetti sottili della pratica. Il lato “oscuro” di questa evoluzione è, certamente, l’attaccamento alla componente estetica: quando attraversiamo la fase di apprendimento degli elementi più tecnici degli asana, è inevitabile restare affascinati da ciò che la pratica produce in termini di risultato estetico. Una muscolatura più scattante, un corpo sano, snello, forte e agile sono tra gli effetti più immediati di una pratica continuativa e costante. La sfida del praticante dei giorni nostri consiste proprio nel superare questa fase di autocompiacimento, di recuperare la componente più sottile dello Yoga, spostando l’attenzione dal corpo fisico a quello energetico. Questo si rende necessario perché al di là dell’impegno del praticante, restano comunque i limiti individuali (siano essi endogeni o esogeni, legati alla corporeità o allo stile di vita individuale), che impongono la necessità di dimenticare modelli irraggiungibili e, molto spesso, falsati da filtri e photoshop.

Quando ci avviciniamo alle immagini dello Yoga proposte dai social, credo sia importante ricordare che esse non ne rappresentano la realtà. Sono uno specchietto per le allodole, il velo di Maya: inizialmente possono attrarre (e conquistare nuovi praticanti, il che è un bene). Ma se ci fermiamo ad esse, se pensiamo che il corpo nello Yoga sia ciò che vediamo sui social, siamo fuori strada. Il corpo nello Yoga è quello di ognuno di noi: con i suoi limiti, i suoi difetti. Le sue potenzialità, ma anche i suoi fallimenti. La sua impermanenza, la sua transitorietà. Il corpo nello Yoga è solo una fase da attraversare, un percorso che è destinato a portarci verso profondità inesplorate.

Il corpo associato allo Yoga che ci viene proposto dai social media è quello necessario ad alimentare il “mercato” che gravita intorno a questa disciplina. Nulla di male, se questo mercato è etico e consente a molti di guadagnarsi da vivere. Ma se cerchiamo l’autenticità del corpo nella pratica dello Yoga, tutto ciò che dobbiamo fare è salire sul tappetino, lontano da specchi e telecamere, con lo sguardo rivolto all’universo interiore, in ascolto del respiro. Eccolo, allora, annamaya kosha. Il primo strato del nostro essere, in attesa di essere esplorato e infine abbandonato, verso il sé più autentico; quello che non ha definizione, limiti o confini, perché è tutt’uno con il divino.

Francesca d’Errico

Fondatrice di The Yoga Club Follonica

Autrice del libro “Tracce di Yoga” (ed. Tracce per La Meta)

Traduttrice del libro “Yoga Assists” di Sharon Gannon e David Life (OM Edizioni)

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