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La bella e romantica leggenda di Savitri viene narrata nel Mahabharata, antico poema indiano dell’era vedica che viene inserito nella raccolta delle Smṛti, la cui lettura è tradizionalmente consentita a tutti gli hindū, ivi compresi quelli appartenenti alla casta più bassa (i sudra) e alle donne.

E’ una storia che narra la forza di un amore coniugale che supera e vince la morte, ma come vedremo poi sottende anche significati più profondi che sono stati messi in luce in particolare dal famoso maestro yoga Sri Aurobindo.

La storia narra di un re, Aswapati (che significa il signore dei cavalli), che governava l’attuale Afganistan (ai tempi chiamato Madra) il quale, essendo senza discendenza, si impegnò in lunghe austerità offrendo numerosi sacrifici, fino a che non gli apparve la dea Savitri che gli annunciò la nascita d’una figlia a cui il pio sovrano decise di dare il nome della dea.

Quando la giovane e bellissima Savitri, raggiunse l’età da marito, suo padre la pregò di scegliersi un marito (nell’India pre-Vedica le principesse erano libere di seguire i propri sentimenti senza dover sottostare al volere dei genitori o alla ragion di stato).

Savitri così partì per un lungo viaggio visitando sia le corti vicine che i regni più remoti, ma non incontrò nessun principe in grado di farle palpitare il cuore.

Un giorno si trovò a passare nei pressi di un luogo in cui uomini saggi, disgustati dal mondo, si erano ritirati in meditazione. In tale terra era proibita la caccia e da migliaia di anni non si ammazzava nessuno.

Tra tali saggi c’era un re chiamato Dyumatsena che, dopo essere stato vinto e detronizzato dai suoi nemici, si era rifugiato nel bosco con la sua sposa e suo figlio, Satyavan.

In ossequio alla tradizione indiana che voleva che re e principi nel passare davanti ad un eremitaggio si fermassero per tributare i propri omaggi ai saggi Yogi e ai Rishi, Savitri si fermò e nel vedere Satyavan si innamorò appassionatamente di lui.

Tornata al palazzo paterno, Savitri annunciò il proprio amore per il principe senza regno che viveva come un Sannyasi nel bosco. Il re Aswapati si consultò allora con il saggio Narada che rispose che un presagio funesto gravava su tale scelta in quanto il futuro marito entro un anno esatto da quel giorno sarebbe morto.

Savitri comunque decise di sposarsi lo stesso con il valente e virtuoso Satyavan e dopo le nozze lasciò il palazzo paterno per andare a vivere nella capanna del bosco privandosi di tutti i gioielli, i diamanti, gli zaffiri, i rubini ed ogni ornamento regale per vivere anch’ella come un eremita.

Il tempo passò finché tre giorni prima della data funesta, la ragazza decise di passare tre giorni e tre notti in completo digiuno e fervide preghiere, senza lasciar trasparire la sua angoscia e nascondendo le sue lacrime. Quando giunse il giorno fatale, Savitri non volle perdere di vista neanche per un istante suo marito e chiese e ottenne dai suoceri il permesso per accompagnarlo nella raccolta di erbe radici e frutta. Quando erano già in pieno bosco, con voce flebile Satyavan si lamentò, dicendo alla sua sposa: “Cara Savitri, mi sento stordito, i miei sensi sembrano svanire e il sonno mi invade. Lasciami riposare un poco al tuo fianco” poi reclinò la testa sul collo della sua sposa ed esalò l’ultimo respiro.

Giunsero quindi gli emissari della morte per portar via l’anima di Satyavan, ma nessuno poteva avvicinarsi al posto dove stava Savitri con il cadavere del marito, perché ardeva un circolo di fuoco che circondava quell’unione formata da una vivente e da un morto. Gli emissari tornarono dal re Yama, il Dio della morte e gli spiegarono che non erano stati in grado di svolgere il loro lavoro. Yama (divenuto Dio della morte perchè fu il primo uomo a morire sulla terra) era colui che era chiamato a decidere se un mortale in virtù di quanto fatto in vita meritasse il premio o il castigo. Egli decise di svolgere direttamente il compito dei propri servitori e grazie alla propria natura divina riuscì ad attraversare il cerchio di fuoco e si avvicinò a Savitri. Spiegò alla giovane che la morte era il destino di tutti gli uomini e portò con sè il marito. Ma Savitri lo seguì sostenendo che il destino di una moglie fosse quello di andare dove la conduceva il suo amore: la legge eterna non separava l’amato sposo dalla sua fedele sposa.

Colpito da tale dedizione, Yama decise di concederle una grazia (che non fosse la vita di Satyavan) ed ella chiese che fosse restituita la vista e la felicità a suo suocero. Nonostante avesse ottenuto quanto chiesto Savitri continuò a seguirlo. La divinità decise allora di concederle un’altra grazia (sempre non la vita dell’amato) ed ella chiese che il suocero recuperasse il regno e le ricchezze.

Savitri continuò comunque a seguire il dio della morte dichiarandosi intenzionata a seguire il marito sia in cielo che all’inferno.

Il dio commosso le concesse una terza grazia e lei chiese che la stirpe di suo suocero non si estinguesse e che il suo regno venisse ereditato dal figlio di Satyavan.

Il re della morte sorrise e alla fine le concesse di riprendersi l’anima di suo marito che sarebbe diventato il padre dei suoi figli. L’amore aveva trionfato sulla morte.

Sri Aurobindo, filosofo e mistico indiano, dedicò una sua importante opera a questo mito ed alla figura di Savitri. Egli spiegava così il significato celato in quella che potrebbe sembrare solo una romantica leggenda: “Satyavan è l’anima che porta in sé la divina verità d’essere, ma che è discesa nella stretta della morte e dell’ignoranza; Savitri è la Parola Divina, la figlia del Sole, la dea della suprema Verità che discende e nasce per salvare; Aswapati, il Signore del Cavallo, padre umano di lei, è il Signore della Tapasya, l’energia concentrata dello sforzo spirituale che ci aiuta a sollevarci dai piani mortali a quelli immortali; Dyumatsena, il Signore degli Eserciti Splendenti, padre di Satyavan, è la Mente Divina divenuta quaggiù cieca, che perde il suo regno celeste di visione e, a causa di questa perdita, il suo regno di gloria. Comunque, non si tratta semplicemente d’una allegoria, i personaggi non sono delle qualità personificate, ma incarnazioni o emanazioni di Forze viventi e coscienti con cui possiamo entrare concretamente in contatto e che assumono corpi umani per aiutare l’uomo e mostrargli il cammino che va dal suo stato mortale a una coscienza divina e una vita immortale”.

Come l’amore individuale di Savitri per Satyavan cancella la morte dal destino di un individuo, Satyavan, così nella visione di Sri Aurobindo, l’avvento dell’Amore divino cancellerà la morte dal destino del genere umano, un’umanità che lo meriti, un’umanità purificata. Comunque la leggenda di Savitri implica che l’amore è un potere di trasformazione. Non vi è possibilità di trasformazione senza l’Amore divino.

La nostra eroina viene festeggiata dalle donne indiane in occasione della festa di Vat Savistri. In tale occasione in molte parti dell’India per tre giorni le donne di villaggi e paesi si riuniscono tra loro per cantare canti devozionali; osservano il digiuno, onorano in gruppo un albero di Banyan innaffiandolo, coprendolo di kumkum e legando nastri attorno al suo tronco. Le loro preghiere servono ad intercedere con la Divinità per la vita dei loro sposi. Il filo di cotone simboleggia il legame dell’essere umano con la vita e ancor più il legame della donna con la Divinità. In questo rito sacro le donne sono mediatrici tra il Divino e la vita incarnata; il Femminile si fa “ponte” tra l’Universo e l’Esistente ed è riconosciuto nel suo potere di Lakshmi: garantire, nutrire, sostenere la vita. Questo incontrarsi fra sole donne per cantare, parlare, confrontarsi e l’atto di ruotare attorno ad un albero sacro è il simbolo del Cerchio Sacro Femminile: luogo fisico, psichico, affettivo e spirituale di conoscenza, sostegno, creazione, Vita. L’albero di Banyan in India è conosciuto anche come l’albero dell’illuminazione di Buddha e anche come “Albero dei Desideri”; lo stesso albero è venerato come “La Madre”, in seguito ad un’altra leggenda che lo racconta nutrice di due orfani abbandonati ai suoi piedi e alimentati con il lattice delle foglie.

Dedicato a mia figlia Savitri Amina

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